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QT n. 12, 17 giugno 2006 Cover story

Un festival per il futuro

C’era chi tifava per il flop, eppure il Festival dell’Economia è stato un grande, importante, inaspettato successo. I motivi, le conseguenze, le prospettive.

"Ma ti rendi conto? Il mio giornalaio, che parla sempre e solo di calcio, in questi giorni si è messo a fare discorsi del tipo: ‘Bisogna considerare che il Pil dell’India è all’8%. E confrontato con quello della Cina...’". L’amico che così parlava - un giovane intellettuale aristocratico verso chi istruito non è - traeva dal fatto conclusioni negative ("Non è stata una cosa autentica, solo una moda, un momento di euforia collettiva").

Nel parco del Centro Santa Chiara, una porzione della coda in attesa di entrare a un dibattito all'Auditorium.

Si può invece pensare all’opposto (e ritenere che far discutere il Bar Sport di problemi veri in termini seri, anche solo per tre giorni, sia una non disprezzabile conquista democratica). Ma comunque l’aneddoto rende bene la dimensione del successo del Festival dell’Economia: che è stato in grado di attirare verso problematiche complesse un pubblico inaspettato, per quantità e qualità. Le code, ordinate e pazienti, uno spettacolo in sé; e le discussioni, i tanti piccoli dibattiti che si sono accesi ovunque: "In città, in questi giorni, non si parla d’altro" - mi diceva un’amica.

Non era un successo scontato. Tutt’altro. Quando, il 1° giugno, al Castello del Buonconsiglio, si apriva il Festival, il presidente Dellai era piuttosto teso: "Questo è il numero zero del Festival – diceva, mettendo vistosamente le mani avanti – Diciamo ch’è una prova generale, tante cose non saranno a punto. Faremo meglio con il numero uno".

Di fatto il partito degli scettici era già in moto. Era il solito Trentino, provincialissimo, piccolo e invidioso, che non crede nei successi propri e detesta quelli altrui, come riportiamo in E’ andata bene: che guaio! per la rubrica "Sfogliando s’impara".

"Tutti quei soldi buttati al vento" era già il ritornello, e la spesa di 600.000 euro era bollata come uno spreco insostenibile (quando poi se ne spendono dieci volte tanto per la caserma dei pompieri di Vigo di Fassa, peraltro doppione della contigua caserma di Canazei...) E L’Adige, in prima pagina, aveva pensato di ventilare il flop, andando a intervistare alcuni albergatori della periferia, i quali, more solito, si erano lamentati delle scarse prenotazioni.

Poi invece le cose sono andate in tutt’altra maniera: 50.000 presenze totali ai tanti appuntamenti (non nel senso di 50.000 diverse persone, chi si è sciroppato dieci eventi, conta per dieci); un pubblico composto per metà da trentini, per metà da gente venuta da fuori provincia, attirata dal battage pubblicitario e dal tam tam nelle università; e infine una copertura dei media nazionali inaspettata.

Dellai da teso era diventato compiaciuto; e così gli altri organizzatori, dal rettore Bassi all’editore Laterza; e l’economista Tito Boeri, a capo del comitato scientifico, passava da appuntamento a appuntamento con il volto sempre più stanco, e sempre più contento.

"Il Trentino si è collocato, in positivo, a livello nazionale. Ha dimostrato di non essere né marginale né periferico: perché il Festival ha saputo organizzarlo, e perché ha saputo animarlo con un’autentica passione civile. Guai se a frequentare gli appuntamenti ci fossero stati solo ospiti – ci dice l’assessore provinciale Gianluca Salvatori, il padre politico dell’iniziativa – Si è così visto che il territorio, quando si pone obiettivi ambiziosi, riesce a dare il meglio di sè. Avevo sentito dire che ci eravamo posti un traguardo troppo impegnativo, adatto a Milano, a Roma, non certo a Trento. E invece no".

In effetti, ad essere vincente è stata anche la dimensione della città, piccola eppur bella, che ha permesso agli ospiti di riconoscersi, di sentirsi a proprio agio, di poter vedere e incontrare il grande nome, l’autore che magari si è letto per tutta una vita.

"Scippare il Festival a Trento? Ma non se ne parla proprio, non è semplicemente possibile..." – commentava Dellai, passato dalle preoccupazioni del possibile flop alle sicurezze di un successo che già pare consolidato.

Bene. Detto tutto questo, rimangono pur sempre due domande. La prima: come mai? La seconda: e adesso?

Appunto: come mai? Cosa è successo di imprevisto, cosa ha fatto scattare la molla? Per cui, il giorno del dibattito tra Michele Salvati e Luca di Montezemolo, dentro il Teatro Sociale maschere ed addetti stampa non sapevano più che pesci pigliare. "Lei ha ragione, il suo nome è nell’elenco degli accreditati – mi diceva una cortese signorina – Ma per la stampa abbiamo riservato 50 posti, e siete in 200". E cosa si poteva mai rispondere alla dottoranda che al mio fianco protestava: "Sono venuta fin qui da Roma, e ora mi lasciate fuori?"

"La gente è venuta qui perché ha bisogno di interrogarsi sulla contemporaneità – afferma Salvatori – Abbiamo costruito un contenitore, e dentro si sono riversate una quantità di energie, intelligenze, esigenze, che prima non trovavano espressione. E’ una voglia di capire che ha trovato nel festival una risposta non orientata, non precotta. Ognuno viene qui e non trova un programma, bensì un menù: è il partecipante che sceglie, decide cosa seguire, si organizza il suo percorso".

Vittorio Agnoletto

Il primo pericolo di un appuntamento sull’economia poteva essere quello del pensiero unico. Forse, alcuni anni fa, sarebbe stata una deriva non facile da evitare. Ma oggi, dopo l’evidenza dei tragici sbagli di organismi come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale; o per converso, l’incapacità del pensiero no-global di passare al positivo, non c’è molto spazio per le sicurezze precotte. "Sono venuto qui con grande piacere, di momenti di confronto come questo c’è tanto bisogno" – ci ha detto in apertura di festival Vittorio Agnoletto.

In effetti non è la prima volta che si registrano grandi partecipazioni a dibattiti sull’economia. A Porto Alegre il Social Forum ha a più riprese radunato molte, ma molte più persone. E a Firenze, nell’autunno del 2002, ancora il Social Forum registrava una pluralità di conferenze in contemporanea, con diverse migliaia di persone ciascuna (Social Forum, tra Firenze e Trento). Ma queste esperienze, pur con i loro grandi meriti (aver additato al mondo le disuguaglianze generate dalla globalizzazione), scontavano un limite: un’omogeneità di pensiero spesso imbarazzante. Passando da una conferenza all’altra, mi sentivo a disagio, quasi stessi assistendo a tante spiegazioni di uno stesso catechismo.

Al Festival di Trento invece niente di tutto questo.

"Qui c’era sia Davos (la località dove si radunano i ministri dell’economia dei paesi industrializzati, n.d.r.) sia Porto Alegre (l’appuntamento classico dei no global, vedi Porto Alegre: la fiera dell' anti-neoliberismo) per poter meglio rispondere a questa domanda di comprensione – afferma Salvatori – Poi chi è venuto qui, non se ne è andato via con una conclusione, perché conclusione non c’è. Il fine del festival è il dialogo, il confronto, non la mozione politica".

Dibattito in Sala Depero.

Ragioniamo negli articoli successivi sui principali temi toccati dal Festival. Però il dato generale è la quasi totale assenza di sicurezze dei relatori; anzi, talora un imbarazzato rifiuto a suggerire soluzioni, dopo aver posto problemi. Per cui alla fine, l’evidente soddisfazione dei partecipanti, era dovuta all’acquisizione non di nuove sicurezze, bensì di nuovi strumenti per continuare a pensare.

Poi ci sono stati i punti da rivedere. Il primo, la questione degli spazi. Il sindaco Alberto Pacher, cui raccontavo delle proteste della studentessa venuta da Roma, "Aveva ragione – mi rispondeva – E con lei tanti altri. L’anno prossimo questi inconvenienti non si dovranno ripetere. Penso che al chiuso si dovrà ricorrere solo in caso di maltempo. Altrimenti useremo le piazze". Che sono molto più capienti, spesso più suggestive (anche se, per esempio, la Sala Depero era una festa per gli occhi degli ospiti) e soprattutto più modulabili: non costa molto prevedere 500 sedie in più da sistemare nell’ultima ora, se l’afflusso si rivela superiore alle attese.

Il secondo è l’interlocuzione tra i relatori, che spesso hanno svolto la propria lezione senza tener conto di quanto altri, su temi analoghi, avevano detto poche ore prima. Per culminare con il caso del ministro Padoa Schioppa, apparso un signore decisamente colto e molto saggio, proprio come deve essere un ministro dell’Economia in tempi perigliosi; ma, paracadutato nel festival assieme al suo intervistatore (Ferruccio De Bortoli, direttore del Sole 24 ore) risultava un alieno, estraneo alle pur stringenti tematiche (ricchezza e povertà) in discussione.

Un Info point in Piazza Duomo.

"Non condivido il giudizio su Padoa Schioppa – ci risponde il rettore Davide Bassi – Però è vero, il problema di far intersecare i relatori c’è. Per il prossimo anno pensiamo di trattenerli, ove possibile, per un certo tempo, magari come visitor professor: in maniera che il festival diventi più compiutamente un momento di confronto".

"Se non altro provvederemo a diminuire il numero dei presentatori/intervistatori, in maniera che siano loro che, avendo partecipato a più incontri, li connettano l’un con l’altro nelle loro domande – afferma l’assessore Salvatori.

Infine, il Trentino. Il Festival dell’Economia rappresenta, accanto all’Università, ai centri di ricerca, alle istituzioni culturali, un altro dei tasselli del Trentino del futuro, basato su cultura, ricerca, innovazione. Quello che ad alcuni poteva sembrare uno slogan sta invece, passo dopo passo, dimostrandosi un disegno che va avanti. Perché un festival prestigioso non vuol dire solo qualche migliaio di ospiti per alcuni giorni, o pubblicità a buon mercato sui media.

Vuol dire anche creazione di cultura diffusa. Innanzitutto a beneficio della comunità, ma anche come fattore essenziale per un ambiente favorevole alla nuova economia della conoscenza.

Coda per entrare alla Sala del Falconetto.

Come si era con profitto discusso in un recente convegno ("Creatività e cultura per uno sviluppo locale innovativo"), nell’economia del 2000, fondata sui cervelli, decisiva è la capacità di attrarre talenti intellettuali. E questa forza di attrazione deriva non tanto dai soldi a disposizione, bensì dall’appetibilità, anzitutto dal punto di vista culturale, di un territorio (vedi La cultura molla dell'economia: funziona?).

Trento (e Rovereto) stanno via via attrezzandosi. Liberandosi con qualche fatica del provincialismo, del localismo arido; per puntare ad essere città accoglienti, aperte, vivaci (magari anche dopo le nove di sera, vedi La città e gli studenti).

Bene. Sorgono però due questioni. La prima è l’allocazione delle risorse pubbliche. Finora andate in gran parte alla lobby del cemento: strade, gallerie, caserme, centri polifunzionali, impianti. Una contrazione delle risorse costringerà a rivedere la ripartizione delle spese: e pessimo segnale è venuto lo scorso anno, quando si è tagliato proprio sulla cultura.

La seconda questione è quella territoriale, del disagio delle valli trentine (Centrosinistra, il bicchiere è mezzo vuoto) che dal Festival e da un modello di sviluppo imperniato sulla conoscenza si sentono tagliate fuori: ne trattiamo in un apposito articolo, Festival e valli:
le chiusure che fanno male.

Mentre negli articoli a seguire (Ricchezza e povertà Cindia, paura e speranza L’Europa è in crisi, viva l’Europa Una felice decrescita (cominciando dallo yogurt)), rivisitiamo le più ampie tematiche del Festival, cercando di connettere i tanti diversi spunti che su uno stesso tema si sono sviluppati nei diversi appuntamenti.