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“Il mercato della paura”

Carlo Bonini - Giuseppe D’Avanzo, Il mercato della paura. Torino, Einaudi, 2006, pp. 352, € 15.50. La paura del terrorismo fomentata ad arte dal Sismi ed altre scorribande dei servizi segreti, come documentate dalle inchieste dei giornalisti di Repubblica.

Andrea Grosselli

L’era di Nicolò Pollari a capo del Sismi, il servizio segreto militare, è finita poche settimane fa. Travolto dalle inchieste sul rapimento a Milano dell’imam Abu Omar da parte della Cia e dalla vicenda delle intercettazioni Telecom, il 20 novembre scorso il Governo ha allontanato il direttore del Sismi voluto dal centrodestra.

Abu Omar

La fine di Pollari è frutto anche, e forse soprattutto, delle inchieste di due giornalisti di Repubblica Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, raccolte oggi in un libro dal titolo inequivoco. “Il mercato della paura” svela infatti come i servizi segreti italiani abbiano fomentato la paura del terrorismo fondamentalista anche in Italia per compiacere l’alleato più potente, gli Stati Uniti. E come abbiano aiutato l’amministrazione Bush alla disperata ricerca di una prova qualsiasi – anche inventata, come ha dimostrato la vicenda delle armi di distruzione di massa irachene – per giustificare l’attacco al nemico pubblico numero uno, Saddam Hussein.

Nel seguire la parabola del generale Pollari, che assunse l’incarico di direttore del Sismi proprio all’indomani dell’11 settembre 2001, quando il fondamentalismo islamico divenne l’oggetto privilegiato delle attenzioni di tutte le intelligence mondiali, i due reporter si imbattono nelle famose carte che “dimostravano” un commercio di uranio tra Niger e Iraq.

Per il governo inglese e quello americano era la pistola fumante, la prova che il regime di Saddam Hussein stava cercando di dotarsi della bomba atomica. Con questa teoria Bush e Blair mossero guerra all’Iraq. Ma le carte nigerine erano un colossale falso, frutto dell’ingegno un po’ naif di un ex militare italiano spiantato che, bisognoso di qualche soldo, con la copertura del Sismi vendeva informazioni taroccate ai servizi segreti stranieri. E’ lo scandalo Nigergate, che giunse a travolgere anche il più influente quotidiano americano, il New York Times, che fu costretto a chiedere scusa ai propri lettori per le inchieste filo-governative di Judith Miller basate sulle informazioni gonfiate dal Pentagono.

Ed è proprio in quei mesi, a cavallo tra il 2002 e il 2003, che l’informazione tocca forse il vertice più basso della sua storia recente. Anche le pagine dei nostri quotidiani rilanciano allarmi per incombenti attacchi terroristici. L’opinione pubblica, tra le stragi di Madrid e Londra, è davvero preda del terrore. Ma per Bonini e D’Avanzo molti dei codici rossi lanciati dai governi e dai servizi segreti occidentali non servivano tanto a prevenire eventuali attentati, quanto a mantenere la paura, unico vero strumento indispensabile a creare il consenso attorno all’ideologia della guerra preventiva.

L’accusa dei due reporter alle barbefinte italiane, come si definiscono in gergo gli 007, è durissima. Inventando o promuovendo informazioni allarmistiche palesemente false, i servizi segreti hanno abdicato al loro ruolo. Invece di prevenire i pericoli per la popolazione, invece di selezionare tra informazioni vere e false, hanno preferito seguire una logica tutta politica e compiacere il governo Berlusconi, ansioso di dimostrare al presidente Bush la piena adesione italiana alle strategie americane.

Insomma, il Sismi di Pollari ha deciso di sostenere la guerra per conquistare l’informazione piuttosto che combattere quella per difendere la popolazione e metterla al riparo dai gruppi fondamentalisti che realmente minacciano l’Occidente e il nostro Paese. Perché il pericolo esiste ancora, dicono Bonini e D’Avanzo, e i servizi segreti servono prima di tutto a prevenirlo, non certo a supportare un’idea politica piuttosto che un’altra.

Ma la critica degli autori non si ferma a Pollari e ai suoi più stretti collaboratori. Nelle pagine centrali del libro Bonini e D’Avanzo si soffermano infatti sulla figura di Dambruoso, il magistrato antiterrorismo che a Milano ha coordinato le indagini contro le cellule fondamentaliste del capoluogo lombardo. Per Bonini e D’Avanzo, con la guerra preventiva e la politicizzazione dell’intelligence, è stata introdotta per la prima volta anche una nuova dimensione del diritto penale che in Italia ha avuto il suo protagonista proprio in Stefano Dambruoso. “Il processo – scrivono i due autori – non è più informativo, come dev’essere un vero processo. Non c’è una ricerca indifferente del fatto, né il giudice è più un indifferente ricercatore del vero. Il processo è offensivo. Il giudice è il nemico del reo e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce. Deviato il presupposto della pena dal fatto alla personalità terroristica dell’imputato, il processo declina e degenera. Dovrebbe verificare l’ipotesi dell’accusa: chi ha fatto cosa, ecco le ragioni che lo provano. Diventa tecnica d’inquisizione sulla persona. Decisivo per decidere – amico o nemico? - è il comportamento processuale. Collabora? E’ amico. Non collabora, non racconta che cosa hanno detto, dicono, fanno, pensano nella sua comunità gli altri? E’ un nemico. Se non lo è oggi, certamente lo diventerà domani”.

E’ il caso di Abu Omar, sebbene il sedicente imam di origini egiziane non abbia neppure potuto subirlo un processo. Omar infatti fu rapito a Milano dalla Cia con il probabile concorso del Sismi e poi trasferito in Egitto dove venne torturato, poi messo in libertà e infine scomparve nel nulla. Anche Abu Omar, per gli autori, è una pedina nel grande gioco della guerra politica e psicologica. Bush vuole dimostrare il legame tra Saddam e lo sceicco del terrore Osama bin Laden affinché la guerra all’Iraq appaia giusta agli occhi dei più. Abu Omar può essere uno dei tasselli che riempiono il quadro più favorevole all’amministrazione americana.

Nicolò Pollari

Il 17 febbraio 2003 Abu Omar viene sequestrato da un nucleo operativo della Cia a Milano. Viene trasferito alla base Nato di Aviano dove viene interrogato prima di essere spedito in un carcere egiziano. Dopo le torture viene messo in libertà nell’aprile del 2004 dietro la promessa di non rivelare mai a nessuno quanto gli era successo. Ma Omar racconta tutto ad amici egiziani. La punizione arriva immediata: il 12 maggio 2004 viene prelevato da agenti del servizio segreto egiziano ad Alessandria d’Egitto. Da allora non se ne sa più nulla.

Ma qual è la colpa di Abu Omar? Solo quella di aver usato parole dure contro gli americani, quella di aver assunto posizioni radicali che l’hanno trasformato in un nemico pubblico agli occhi della Cia e dei servizi segreti italiani. Non c’è alcuna prova concreta che abbia militato con qualche organizzazione criminale, né che abbia ordito alcuna macchinazione per attaccare l’Italia. In realtà è finito in un meccanismo crudele molto più grande di lui. Come è successo anche all’informazione, che in questi anni di guerra al terrore ha sbandato e ha perso il suo ruolo, che per Bonini e D’Avanzo resta sempre quello: svelare gli inganni e cercare la verità.