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QT n. 7, 6 aprile 2007 Cover story

Musulmane in Trentino

3.600 immigrate con un’identità intrappolata da rigide etichette e pesanti stereotipi. Un sondaggio su cosa ne pensano le donne trentine, e un’inchiesta su come vivono un inserimento sempre problematico.

In passato attendevano pazienti il ritorno del compagno partito per cercar fortuna. Ora non più. Fanno i bagagli e raggiungono l’amato nel paese lontano. Oppure partono da sole. Fuggono da Paesi ostili, da guerre e carestie. Prendono in mano le redini della propria vita per migliorarne le condizioni o per dare spazio ai desideri di realizzazione personali. A volte sono attratte dallo spirito d’avventura o dalla possibilità di fare nuove esperienze.

Stiamo parlando delle donne migranti, un gruppo numeroso che attualmente rappresenta il 46% della popolazione straniera in Italia. Eppure, questo è un mondo che continua ad essere silente ed invisibile, nonostante contribuisca non poco a far girare l’ingranaggio produttivo della nostra società. Nell’immaginario collettivo la donna migrante equivale all’angelo custode degli anziani, la badante, oppure alla prostituta.

Insomma, quando si parla di queste donne è facile scivolare sugli stereotipi. Poco si sa, invece, del bagaglio culturale e d’esperienza che si portano appresso nel Paese d’accoglienza. I loro percorsi di vita, la loro identità rimane spesso nell’ombra intrappolata da rigide etichette, specie se l’ immigrata proviene da paesi di tradizione musulmana. Secondo le stime del 2006, forniteci dal Centro Statistico Caritas Immigrazione di Roma, i musulmani regolari in Trentino sono diecimila. Le donne, giunte soprattutto per il ricongiungimento famigliare, sono circa 3.600 e arrivano prevalentemente dai Paesi magrebini: Marocco, Tunisia ed Algeria. Un’altra comunità corposa è quella albanese e pakistana.

Per tastare la percezione del fenomeno abbiamo fatto un sondaggio tutto al femminile, chiedendo a cinquanta trentine, di diversa età ed estrazione sociale, cosa pensano delle donne musulmane immigrate.

Il ritratto che ne esce ha contorni molto nitidi e dettagliati, sebbene la stragrande maggioranza delle donne locali ci dica di non aver mai provato ad attaccare bottone con loro. A botta calda, il ritornello è: "Io le incontro, ma con loro non ho mai parlato". Le musulmane sono descritte, per lo più, come persone fragili, prive di un’adeguata istruzione, compagne di viaggio del marito passive e sottomesse. Figure tutte uguali, che camminano silenziose avvolte in abiti lunghi e foulard, simbolo di una società maschilista: "Se vai al pronto soccorso le vedi sempre con i mariti, loro non decidono niente. Parla sempre lui". "Il velo a volte è una scelta, a volte un’imposizione del marito". "Più sono attaccate alla loro religione e più sono distanti e sottomesse".

Le signore velate suscitano tuttavia una gran curiosità, attirano l’occhio anche per il loro stile di vita: "M’incuriosisce il loro modo di badare ai figli. Le ho viste con il marito che guidava la carrozzina con il bambino, sono simili a noi, però si mettono il velo".

E’ palpabile la percezione di un certo distacco o, per meglio dire, di una "fastidiosa" chiusura che scoraggia l’approccio delle trentine. Una caratteristica, quella di essere schive, che le donne locali bollano come tipica delle islamiche: "Non permettono di entrare nel loro mondo. Non vogliono lo scambio. Fanno gruppo a sé. Dovrebbero comunicare di più con le trentine e conoscere un po’ le nostre tradizioni".

" Si tengono i loro pensieri, forse per un fatto religioso".

"A scuola sono sempre fra loro, anche se qualcuna saluta ed è educata".

"Le altre immigrate che frequento hanno più voglia d’integrarsi".

Poche, però, sono le trentine disposte a rompere il ghiaccio, andando oltre i saluti formali: "Sembrano chiuse, ma con un aggancio riescono ad aprirsi. Sono disponibili a parlare senza essere invadenti. Io le incontro, quando accompagno i bambini, con loro ho un rapporto molto positivo".

Un muro d’incomunicabilità che si catalizza spesso intorno ad un simbolo islamico: il velo. Un simbolo rievocato nel parlare comune con un nome generico, senza alcun’attenzione alle tante culture e tradizioni dell’Islam. In sostanza, non si fa gran distinzione fra la tela, che scherma la donna dal mondo esterno (il burqa),e un semplice foulard che le nasconde i capelli, quale il chador.

Il velo, tuttavia, è utilizzato a più riprese come termometro per misurare il grado d’integrazione delle musulmane: "Quelle senza velo sono più integrate ed estroverse. Hanno rapporti più normali anche coi ragazzi".

"Forse se si vestissero in modo diverso, sarebbero più integrate. Una trentina media, che vede queste donne coperte e con la palandrana fino ai piedi, si mette sul chi va là".

Non abbiamo rilevato, comunque, particolari reazioni negative verso le donne che lo indossano, purché siano rispettose dell’identità religiosa delle trentine: " Il velo non mi dà fastidio, basta che non pretendano di levare i simboli della nostra religiosità".

"Il velo è un atto di coraggio, perché significa mettere in luce quello in cui credono".

E qualche donna locale, messa in allerta dalla domanda, marca a chiare lettere i confini del proprio recinto ed osserva le donne "velate" con occhio un po’ sospetto, agitando lo spettro di pericolose contaminazioni culturali: "Forse dopo i fatti violenti visti in tv ci fidiamo meno di loro. Vicino a me una donna ha aperto un negozio dove vende alimenti della loro tradizione. E’ frequentato dalla loro gente; io lì non andrei. Adesso si è pure messa a vendere le nostre pizze e tramezzini".

La musica cambia alla grande per la sparuta schiera di donne che hanno avuto un contatto più ravvicinato con le musulmane; e sono soprattutto le giovani, con istruzione elevata, a lanciare dei messaggi d’incontro. Piccoli segnali d’apertura che pongono l’accento sul prezioso arricchimento che deriva dal contatto con un’altra cultura:

"Io a Trento convivo con una tunisina. Non porta il velo ed ha una mentalità davvero aperta. Da quando la conosco sono molto tollerante. Non sono così chiuse come la gente le vede. La cultura musulmana è molto diversificata ed è un peccato chiuderla dentro rigide definizioni".

"Fra loro ho conosciuto donne splendide e coraggiose, perché non è facile integrarsi in un ambiente come il Trentino pieno di pregiudizi".

"Mi piacerebbe avere dei contatti per capire meglio il loro punto di vista".

In sostanza, per gran parte delle donne trentine, accecate dai luoghi comuni, il vissuto delle donne musulmane è totalmente sconosciuto. Vediamo allora di analizzare più da vicino questa fetta dell’immigrazione femminile per cogliere alcune sfumature nascoste, i loro progetti di vita e le modalità d’inserimento nella nostra comunità. Sappiamo bene come la conoscenza di un’altra cultura possa fare a pezzi molti stereotipi. Partecipare a gruppi d’incontro e tessere nuove reti di solidarietà significa dar voce ai propri bisogni e creare momenti di confronto. Magari per parlare semplicemente dell’educazione dei figli, del lavoro o dei grattacapi quotidiani.

"In Trentino – ci dice Aicha Mesrar, mediatrice culturale d’origini marocchine ed ex presidente dell’associazione Città Aperta di Rovereto - mancano dei circoli culturali ove poter realizzare momenti di scambio con le donne trentine, tipo degli spazi per fare dei corsi o attività manuali. Le donne locali ci sentono un po’ distanti perché, tranne le poche occasioni d’incontro, magari a scuola, non ci conoscono. Ad esempio, in un ritrovo che abbiamo organizzato, delle trentine, vedendomi con il velo, mi hanno detto: ‘Mi fai paura’. Alla fine degli incontri, però, la loro percezione era totalmente cambiata in positivo. Non nego, comunque, che anche per le musulmane ci siano difficoltà d’approccio. Ma sarebbe importante capire come ci si sente in un luogo con abitudini e soprattutto ritmi di vita completamente diversi".

Insomma, le difficoltà d’impatto non sono poche ed è facile che lo spaesamento e la solitudine prendano il sopravvento. Un primo intoppo è rappresentato dalla non conoscenza della lingua, che rappresenta una barriera nel cammino d’integrazione e nella comprensione della nuova realtà. L’accesso ai corsi linguistici, ma anche professionali, non sempre è agevole per donne che si trovano catapultate in un Paese straniero senza una rete di supporto, di parenti o amici, che le aiuti nel lavoro di cura. Capita, però, che questa limitata partecipazione ai corsi linguistici sia interpretata dalle trentine come poca voglia di socializzare. "Le cose non stanno affatto così, – chiarisce Mesrar - la motivazione nell’apprendere la lingua c’è senz’altro. Ma gli ostacoli da superare sono molti. Oltre al fatto che le donne hanno spesso molti figli a cui badare e senza la presenza di nonni che diano una mano, ci sono problemi anche per raggiungere i luoghi dei corsi, perché magari abitano lontane".

Dunque, le incombenze che le donne si trovano ad affrontare sono parecchie. Tutt’altro che compagne passive del viaggio migratorio, esse sono un anello importante nell’equilibrio famigliare, che spesso può vacillare nell’impatto con la nuova realtà. Riannodano le fila fra usi consolidati e quelli acquisiti nel paese d’arrivo. Sono paladine della tradizione e al contempo portatrici d’innovazione. Insomma, non pensano solo a cucinare il couscous, ma agiscono come mediatrici filtrando tutte informazioni che piombano dal mondo esterno.

Aicha Mesrar, mediatrice culturale.

E sono spesso i figli ad avere le antenne più sensibili per captare, attraverso la scuola, tutte le novità ed accelerare l’inserimento. La scuola è infatti un osservatorio importante per monitorare il livello d’integrazione. Vediamo quindi quali sono i nodi che le musulmane incontrano nel rapportarsi ai servizi scolastici.

"Molte incomprensioni con il personale – spiega Mesrar - nascono ancora una volta dalla non conoscenza della cultura araba. Ad esempio: le insegnanti interpretano lo scarso coinvolgimento delle mamme musulmane nel percorso scolastico dei figli come disinteresse. Invece, oltre ai consueti problemi di comunicazione per quelle mamme che non parlano l’italiano, c’è il fatto che il nostro sistema scolastico è completamente diverso. Da noi l’insegnante occupa il posto del genitore, ha un ruolo importantissimo e nella didattica può decidere tutto. C’è un affidamento totale del bimbo alla scuola".

Un altro tassello privilegiato per fiutare le strategie d’inserimento è l’approdo ai servizi, che è un punto dolente. Nel caso delle donne musulmane, può succedere che motivi di pudore e precetti religiosi facciano sì che nelle strutture pubbliche siano evitate le occasioni di promiscuità. Quindi il contatto con personale sanitario femminile è preferito. Quando i servizi, come consultori ed ospedali, non sono preparati ad accogliere queste utenti, è facile che le donne sfuggano alle visite mediche, dando poca attenzione al proprio corpo o limitandola a motivi di grave urgenza. Non solo. Per la difficoltà d’accesso ai servizi e la non conoscenza della lingua esse corrono ai ripari utilizzando come interprete il marito, o qualche conoscente, lasciando sottaciuti molti aspetti personali importanti della propria salute.

"In effetti – afferma la mediatrice culturale – queste considerazioni ci sono giunte dal personale sanitario. Per questo, dal 2004, abbiamo attivato in Trentino, per tutti gli immigrati, il servizio di mediazione culturale per l’accesso a visite e vari servizi. Spesso il personale sa come rapportarsi alle musulmane, soprattutto in caso di visite un po’ delicate. Serve comunque maggior formazione da parte dei sanitari, perché se s’ignorano certi aspetti della nostra cultura è difficile poter stabilire un approccio corretto. Le faccio un esempio per capire come i pregiudizi siano presenti in questo campo: quando muore una persona la donna manifesta il dolore soffrendo in silenzio, l’uomo invece lo esprime in modo molto forte e visibile. Il silenzio femminile è spesso inteso come sottomissione, che impedisce l’espressione del dolore. In tal modo si dimentica un bisogno comune ad ogni donna: l’avere qualcuno, anche un’infermiera o un medico, che ti dia parole di conforto".

Fra i vari percorsi di vita accidentati delle donne musulmane immigrate troviamo anche i loro progetti d’emancipazione, messi in ombra dall’immagine stereotipata della donna islamica chiusa nello spazio domestico, con pochi spiragli di luce all’esterno. In realtà, basta dare un’occhiata alle ricerche, per rendersi conto che molte donne sbarcate nel nostro paese hanno un buon livello d’istruzione, anche se non è sempre spendibile a livello occupazionale nella nuova realtà.

Ma quali sono gli ostacoli che incontra la donna islamica in Trentino nella sua affermazione professionale? E quanto il portare anche un semplice foulard, che nasconde i capelli, agisce come elemento di discrimine? "Dopo l’11 settembre – ci dice Mesrar - anche in Trentino le difficoltà d’inserimento lavorativo sono aumentate per tutti gli arabi. Alcune donne si sentono respinte e si trovano davanti un muro per il semplice fatto di portare il foulard. Incontro spesso musulmane che si sono ormai rassegnate. Molte mi chiedono: ‘Ma tu come hai fatto a trovare un impiego con il velo?’ . L’offerta rimane limitata ai lavori di pulizia in aziende o case. Naturalmente, anche in questo contesto il pregiudizio gioca un ruolo: molti pensano che la donna musulmana non sia all’altezza di fare certe cose e sia poco autonoma. Dimenticano che hanno affrontato i rischi di un viaggio migratorio con molto coraggio".