Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 10, 19 maggio 2007 Monitor

“Effetto Bertolucci”

Il festival roveretano "Futuro Presente" dedicato a Bernardo Bertolucci: aveva senso? Non è un regista che ha dato il meglio quaranta anni fa e poi si è annacquato? Al termine della rassegna possiamo dire che...

Ecco le domande che serpeggiavano: Bernardo Bertolucci merita l’omaggio che il festival roveretano "Futuro Presente" gli ha voluto tributare? La sua opera è veramente di portata tale da poter parlare di un effetto all’interno della storia dell’arte cui si è dedicato? Un effetto paragonabile a quello dei due omaggiati degli anni scorsi, Merce Cunningham e Philip Glass? Tra chi si interessa un po’ di cinema, il luogo comune sul cinema di Bertolucci è infatti questo: una prima parte di carriera molto interessante che dagli anni ‘70 e poi soprattutto dalla metà degli anni ‘80 cambia tono per adattarsi a un gusto medio e agli interessi di un pubblico internazionale. Ha senso quindi omaggiare un artista che il meglio di sé, forse, lo ha dato trenta-quarant’anni fa?

L’unico modo per rispondere ai dubbi era quello di andare a vedere o rivedere, prima di tutto, i contributi per i quali viene omaggiato. Vale a dire, i film. La somma delle visioni non fornisce una risposta sicura rispetto alle domande di partenza. Di certo, vedere in modo così concentrato tutta una produzione permette di toccare con mano quanto autoriale – in senso buono, nel senso della "politique des auteurs" – sia l’opera di Bertolucci. Può girare film su un imperatore cinese o su un amore parmigiano, e in entrambe le pellicole vi è la traccia precisa di una mano, della matrice di pensiero di colui che le ha concepite. Da un film a un altro, si ritrovano quindi suggestioni e ossessioni, da quelle banali a quelle complesse e teoriche – l’Emilia, il Po, il culatello, Verdi, i contadini, la cinefilia, la psicanalisi, la poesia, la chiusura in una stanza, la politica che aspetta fuori dalla porta, che costringe all’apertura al mondo…

Sulle singole opere si possono avere opinioni diverse. La nostra è che Bertolucci abbia realizzato almeno due ottimi film, "Il conformista" (1970) e il piccolo e semplice "L’assedio" (1998). In molti altri suoi film si trovano buone idee. Ha soluzioni di regia splendide "Prima della rivoluzione" (1964), opera imitativa della nouvelle vague francese cui tuttavia continuiamo a preferire gli originali. E’ un buon film anche "Strategia del ragno" (1970), che risulta tuttavia non del tutto risolto. C’è un nucleo che affascina nel famigerato "Ultimo tango a Parigi" (1972), così come "Novecento" è pieno di soluzioni geniali di contenuto e soprattutto di stile (che d’altra parte è impeccabile in tutti i film di Bertolucci). Dobbiamo confessare, invece, di aver rinunciato a rivedere i film degli ultimi vent’anni (con l’eccezione de "L’assedio"), di fronte ai quali l’auspicabile apertura a una revisione del giudizio critico passa in secondo piano rispetto al desiderio di evitare comportamenti masochistici. Non abbiamo quindi rivisto "L’ultimo imperatore" (1987), "Il tè nel deserto" (1990), "Il piccolo Buddha" (1993), "Io ballo da sola" (1996) e "The Dreamers" (2003).

Effetto Bertolucci" non era tuttavia solo un festival cinematografico. I contenuti del cinema di Bertolucci venivano fatti risuonare – come di consueto nella formula di Futuro Presente – all’interno delle altre arti. Per entrare nel merito delle singole serate del festival, dunque, diciamo subito che i due concertoni (Ryuichi Sakamoto – presenza persino esagerata – e Gato Barbieri) sono stati bucati dalla redazione di Monitor. Ci affidiamo comunque a una somma di testimonianze indirette: del concerto di Sakamoto abbiamo sentito solo parlar bene (ci mancherebbe); le opinioni raccolte qua e là sono invece tendenzialmente negative per Gato Barbieri, che d’altronde già negli anni Settanta non entusiasmava con il suo jazz melodioso e laccato.

I concerti notturni gestiti dall’associazione Dissonanze Armoniche si sono dimostrati molto interessanti. Giovedì 10 maggio Dustin O’ Halloran, in sala conferenze del Mart, ha suonato per un’ora un pianoforte a coda, riuscendo a sprofondare l’auditorio, con le sue suggestioni classiche e pop, in una trama forse vagamente onirica ma di sicuro fascino. Il 12 maggio, il cantautore inglese Matt Elliott ha proposto una strana e ammaliante combinazione tra armonia e feedback, falsetto e rumore, chitarra classica e sovraincisoni vocali, testi cimiteriali e spirito di ricerca.

A introdurre le due puntate di "Novecento" sono stati chiamati – prima nella piazza del Mart, poi nell’Auditorium – il Gruppo Ocarinistico Budriese e il Nuovo Concerto Cantoni, gruppi tradizionali che mescolano musica da ballo e arie d’opera. L’effetto prodotto va collocato tuttavia fra il simpatico e il patetico.

La presenza di Bertolucci nella serata di chiusura del festival ha finito per convincere, anche riguardo alle domande con cui abbiamo aperto il pezzo. La riflessione condotta sul suo cinema con il gruppo di amici che lo accompagnava sul palco ci ha mostrato un autore riflessivo, per il quale una scelta artistica ha valore e peso nei confronti del mondo in cui essa viene calata. La volontà di passare da un cinema amato dalla critica ma (nella sua stessa definizione) "monologante" alla ricerca di un dialogo con un pubblico più vasto va quindi letta nella sua precisa intenzionalità. Sono due corni di un dilemma su cui si continua a interrogarsi, in molti campi: essere fedeli a se stessi e comunicare a pochi oppure diventare più morbidi per parlare con un maggior numero di persone. Comunque la si pensi, quella di Bertolucci è una scelta ponderata, da rispettare, che induce a considerare con finale ammirazione la sincerità del suo percorso biografico e artistico.