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QT n. 13, 30 giugno 2007 Servizi

In tanti, anche dal Trentino

Il Roma Pride è stato partecipato quanto (e forse più) del Family Day; ma i media sembrano non essersene accorti.

Roma, sabato 16 giugno. Sotto un sole a picco, già dalle tre del pomeriggio i primi gruppi di persone cominciano ad affluire in zona Piramide, punto di concentramento del Pride 2007. Io sono in città dal giorno prima ed ho preso appuntamento con la delegazione trentina direttamente al concentramento della manifestazione. Durante il viaggio i nostri due pullman si sono imbattuti in qualche rallentamento e in un controllo della polizia in autostrada, quindi scontano un po’ di ritardo sulla tabella di marcia.

Le telefonate tra me ed i passeggeri in arrivo si incrociano sempre più frequenti e concitate: "Dove siete?"

"Stiamo entrando adesso a Roma. E’già partito?"

Finalmente trentini e trentine sbucano dal metrò, sorridenti e trafelati, un po’provati dalle lunghe ore di viaggio e con l’ansia di dover rincorrere la coda del corteo. Così non è, dal momento che, ben oltre le quattro, ora prevista per l’inizio della parata, stanno ancora affluendo moltissime persone, che si infilano fra un carro e l’altro, ai lati della strada, in fondo al lungo e colorato serpente di persone, ovunque.

La sensazione è quella di un’affluenza continua, ben oltre le aspettative e di un clima di festa ed entusiasmo contagiosi, come da tempo non percepivo ad una manifestazione nazionale. Dopo i saluti e gli aggiornamenti di rito, ci incamminiamo verso il corteo: c’è Zoe, il piccolo carlino femmina di Bea, che scodinzola frastornata tra la gente, c’è Michela, che con la sua caviglia distorta voleva rimanere a casa, ma che abbiamo obbligato ad esserci, su una sedia a rotelle prestata da un’amica, che a turno spingeremo fino a sera, ci sono le ragazze di arcilesbica, i ragazzi di arcigay e anche tanti etero solidali.

La partecipazione dal Trentino è stata sorprendente, due pullman riempiti in fretta e senza difficoltà e tante persone arrivate a Roma autonomamente, per un appuntamento che siamo riusciti ad organizzare in maniera unitaria, mettendo insieme soggettività diverse e riuscendo a costruire per la prima volta una partecipazione organizzata ad un pride nazionale.

Quest’anno era chiara a molti l’urgenza di fare dell’appuntamento un momento il più possibile partecipato, in difesa delle parole d’ordine scelte per l’appello nazionale: parità, dignità e laicità. A farsi carico della sfida organizzativa, oltre ad Arcigay ed Arcilesbica del Trentino, sono stati il Laboratorio in movimento, un collettivo lesbico di Trento, la Cgil, la Uil, Rifondazione comunista, la Rosa nel Pugno, i Ds del Trentino (seppure, questi ultimi, con qualche titubanza). Insieme abbiamo lavorato all’organizzazione dei pullman, alla diffusione dei volantini, alla conferenza stampa di lancio dell’iniziativa; e anche ad un appello di adesione alla piattaforma della manifestazione, che abbiamo diffuso e fatto sottoscrivere a donne e uomini del mondo della politica, delle professioni, della cultura, della società civile trentina. L’obiettivo era quello di fare del 16 giugno non solo un momento di partecipazione fisica, ma anche un’occasione di promozione e dibattito sul territorio dei valori e delle parole d’ordine dell’appuntamento.

L’urgenza di dare una forte risposta di partecipazione è conseguenza diretta dei complicati mesi di dibattito sulle unioni civili, che hanno saputo ferire profondamente tanti e tante: un dibattito dai toni oscurantisti e reazionari, pesantemente offensivi e scorretti, impostato più come una guerra di religione che come un confronto di sensibilità diverse sui delicati temi dell’affettività e delle relazioni. Abbiamo ascoltato illustri esponenti della gerarchia ecclesiastica equiparare l’omosessualità alla malattia mentale, quando non alla pedofilia, esponenti politici del centrosinistra definire l’omosessualità una devianza, per non parlare dei toni allarmistici, sollevatisi da più parti politiche, che agitavano lo spettro della fine della famiglia e del collasso morale della società italiana.

L’iniziale progetto di legge dei Pacs, i patti di solidarietà civile, concepiti sul modello di tante altre esperienze europee, sono ben presto parsi "troppo", così si sono profilati all’orizzonte i Dico, decisamente più modesti sul piano delle effettive garanzie giuridiche e sociali. Anch’essi sono tuttavia divenuti troppo estremi e dirompenti, nel corso di un dibattito in cui le alte gerarchie vaticane hanno più volte esternato una contrarietà granitica, e in cui le varie forze politiche hanno mostrato un volto decisamente omofobo e subalterno ai ripetuti niet vaticani. E così qualcuno, nel disperato tentativo di non scontentare nessuno e di far convivere la Binetti con Grillini, tutti insieme appassionatamente nella grande casa democratica, ha iniziato ad ipotizzare qualche modifica del codice civile, come scappatoia risolutiva.

Infine, colpo di grazia decisivo, è arrivato il Family day del 12 maggio, con le sue - secondo la questura - duecentomila persone, scese in piazza per difendere la famiglia tradizionale, fondata sul matrimonio religioso, per chiedere più diritti e tutele e per bloccare il disegno di legge sui Dico.

L’appuntamento sembra essere riuscito nel suo intento, dal momento che è diventato un tormentone mediatico nelle settimane precedenti e successive e che, subito dopo, i Dico sono inesorabilmente scomparsi nel silenzio generale.

La politica si è affannata a interrogarsi su che cosa la piazza del Family Day le stesse chiedendo, si è sforzata di capire e di interpretare, come è d’altronde giusto che faccia, perché se la politica smette di ascoltare la società diventa autoreferenziale e oligarchica. Una cosa brutta e sporca insomma, che genera disaffezione e delusione, che conduce a quel diffuso sentimento di antipolitica, di cui tanto si dibatte ultimamente.

Ora, senza fare il bilancino dei numeri, il 16 giugno, al Roma Pride, la questura ne ha contati trecentomila. Tanti, un pezzo importante di società.

P iù importante di quello del Family day? Più significativo, perché più numeroso? Non credo sia questo il punto. Il punto è, a mio parere, che il trattamento mediatico, locale e nazionale, riservato al Pride è stato vergognoso: al di là della mera cronaca dell’evento, non c’è stato quasi alcun dibattito, né prima, né dopo. La politica, quasi tutta, tranne quella che al pride c’era, condividendone fino in fondo spirito ed obiettivi, questa volta non si è affannata a domandarsi che cosa quella piazza esprimesse, quale domanda di riconoscimento e partecipazione ponesse. La risposta è stata il silenzio.

Gli effetti di questi mesi difficili si sono fatti sentire al corteo, che è stato davvero uno scatto d’orgoglio: lo si è visto dalla massiccia partecipazione e lo si è capito anche dagli interventi finali dal palco, dai quali, oltre a trasparire l’emozione per quella piazza S. Giovanni stracolma di persone, emergeva la delusione, la rabbia, l’amarezza di anni di aspettative deluse. E’stato detto senza mezzi termini: "Abbiamo votato questo governo, abbiamo sostenuto questa classe politica, ma adesso la misura è colma. Basta con i compromessi e le mediazioni infinite, la richiesta di un riconoscimento purchessia, anche se poi è talmente al ribasso da diventare discriminante". Gli e le omosessuali hanno deciso di rompere con un percorso politico durato un decennio, in cui hanno tentato la strada della mediazione e che ha condotto ad un progetto di legge, quello dei Dico, che finirebbe con il sancire giuridicamente l’esistenza di famiglie di serie A e di serie B, le prime con tutte le credenziali per godere di diritti e tutele, le seconde invece con diritti e tutele minori, per il solo motivo di essere famiglie omosessuali.

Perché questa è la grande, inconfessabile paura dell’attuale classe politica italiana: mettere nero su bianco che l’amore, le relazioni di cura, l’affettività omosessuali hanno diritto allo stresso riconoscimento giuridico riservato a quelle eterosessuali. Che le relazioni tra persone dello stesso sesso devono essere riconosciute al pari di quelle eterosessuali, in tutte le piccole e grandi cose che fanno parte della vita: condividere una casa, far quadrare i conti, affrontare insieme la malattia e la morte, tirare su un figlio, separarsi. Sembra banale, a scriverlo così, sembra perfino incredibile, agli occhi dei tanti cittadini laici, moderni, europei che con sgomento hanno guardato a questi mesi di dibattito, al progressivo aggrovigliarsi del centrosinistra in un balletto di improbabili mediazioni, con una gerarchia vaticana feroce e omofoba a fare da custode dell’etica di stato.

Questa è la situazione italiana attuale, anche se a scriverlo mette paura. E allora bene hanno fatto, dal palco del Roma Pride, a rompere con gli equilibrismi e le ipocrisie, a dire che vogliamo tutto e subito. Adesso si tratta di ricominciare dalla forza, dall’entusiasmo e anche dalla rabbia di quella piazza, in cui c’era tanta parte della società italiana, quella parte che è molto più aperta, serena e solidale dell’attuale classe politica. Si tratta di rimettere al centro della politica i bisogni, le relazioni, le famiglie reali che ogni giorno muovono questo paese, di difendere la laicità dello Stato e farne valore orientativo della politica, in quanto luogo prezioso e imprescindibile di incontro delle diversità, di ascolto reciproco, di libertà.