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La Baghdad delle meraviglie e il suo poeta

Il Rinascimento arabo dell’VIII secolo. Da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello.

Ivan Teobaldelli

C’era una volta - e non è l’inizio d’una favola - una città che non aveva eguali al mondo per ricchezza e cultura. Una metropoli di un milione d’abitanti quando Parigi ne conta appena 5.000. Una città a forma d’anello, dove s’incrociano tutti i saperi dell’epoca. Un vento libertario e libertino ispira filosofi e poeti. Fanno a gara, i sapienti, a squadernare le tesi più audaci: esiste un solo Dio? Qual è la genesi del mondo? Se Dio è eterno lo è anche la materia?

Iil poeta Abu Nuwas.

E’ un terremoto culturale accompagnato da un cambiamento radicale dei costumi. Si mettono in discussione divieti e moralismi. S’affollano le taverne e i luoghi di piacere. E’ una corsa al vino (haram, proibito) e agli amori.

In quale paradiso ci troviamo? A Baghdad, alla fine dell’ottavo secolo. Da noi, altre etichette di corte, più severe. A Aix-la-Chapelle, c’è Carlomagno. Sul Bosforo, a Bisanzio, l’imperatrice Irene, mentre sulle rive del Tigri sta per sorgere la più fastosa delle capitali. L’ha voluta il califfo al-Mansour per umiliare gli sconfitti Omayyadi di Damasco. Una mossa audace e ambiziosa: trasferire in Iraq il cuore dell’impero. In quattro anni, col lavoro di 100.000 operai, nasce quella che sarà per cinque secoli un faro di civiltà: la Baghdad degli Abbasidi.

La città è un gioiello architettonico, un cerchio di 4 km di diametro, un fossato profondo e una doppia cinta di mura. Da qui transitano tutti i commerci: la via della seta verso Cina e India; la via del Volga verso le terre del Nord, e i collegamenti col mondo bizantino e franco. Il declino comincerà nel 1258 con il sacco di Húlagu, nipote di Gengis Khan. Dopo un assedio di venti giorni i mongoli massacrano la popolazione. Viene assassinato anche il califfo al-Mustansir che aveva appena fatto in tempo a inaugurare la madrasa Mustansiriya, una delle prime università della storia. Sic transit gloria abbasida.

Ma torniamo al 786, quando Harun al-Rachid ("il ben guidato") arriva al potere e regna incontrastato sul mondo musulmano, a eccezione della spagnola al-Andalus, l’enclave di Cordoba. E’ il famoso califfo delle "Mille e una notte", un sovrano illuminato e despota che si libera del "nocciolo" bizantino della corte, caro agli Omayyadi, e si circonda di vizir e segretari persiani. E’ l’epoca d’oro della cultura musulmana, il suo Rinascimento. L’uomo e la ragione diventano la pietra di paragone. Con il diritto di "disporre liberamente del corpo e dello spirito". Come api che suggono il nettare, s’incrociano i sapienti e le scienze. L’alveare è una biblioteca, la Casa della Saggezza (dar al Hikma), dove vengono tradotti per la prima volta i filosofi greci. Si spalancano abissi speculativi: Dio è in ciascuno di noi e non nei testi. Ma il rapporto tra fede e ragione, così fertile e dinamico nella cultura greca, è indigeribile per i felaqa, i dottori della legge. Sarebbe come chiedere al cardinale Ruini di sottoscrivere i Pacs. Convinti che la Verità sia solo dentro il Corano e che questo non può essere criticato, i felaqa decidono di chiudere ogni porta all’interpretazione. L’Islam viene fissato definitivamente nel 1019 con una professione di fede, "L’epistola di Qadir", che proibisce ogni nuovo commento. Ma il tentativo di conciliare la fede islamica con le civiltà che l’hanno preceduta - la persiana, la greca e l’indù - ha già maturato i suoi frutti: le opere in prosa di al-Jahiz, gli studi storici di al-Tabani, le scoperte geografiche di al-Yacubi. E, in poesia, al-Mutanabbi e Abu Nuwas.

Ci interessa in particolare quest’ultimo, che le pavide antologie scolastiche arabe regolarmente cassano. Abu Nuwas, per quel poco che si sa di lui, fu un personaggio dalla vita picaresca. A partire dal nome che significa "padre dei riccioli" perché amava portare i capelli lunghi e boccoluti.

Un’infanzia alla Oliver Twist. Nasce nel 756 ad Ahva, ma rimane subito orfano di padre, un soldato di Damasco che non conobbe mai. La madre è una tessitrice persiana che preferisce venderlo ad un agiato farmacista yemenita. Va a vivere a Basrah, il paese di Sinbad il marinaio. Qui il ragazzo apprende il Corano e la grammatica nella scuola della moschea. E’ molto bello e la sua grazia gli attira la protezione di un cugino, il poeta Walida ibn al Hubab, che ne diventa il mentore e l’amante. Abu Nuwas prosegue gli studi con un maestro della poesia pre-islamica, Khalaf alAhmar, che l’obbliga a soggiornare tra i beduini del deserto per impadronirsi della purezza della lingua. Ma il ragazzo è troppo amante delle comodità per apprezzare la vita ascetica: "Critico, datti una calmata! / La tua speranza d’un mio pentimento / sfocerà nella delusione. / Perché questa è la vita: / niente tende del deserto, / niente latte di cammello! / Come puoi infilare un beduino / dentro il palazzo di Kisra? / Sei pazzo ad aspettarti contrizione, / e stracciati tutte le vesti che vuoi: / io non mi pentirò mai!". Abu Nuwas abbandona la tradizionale formula della poesia conviviale per concentrarsi sulla poesia erotica che celebra i bei ragazzi nelle vesti di coppieri e invita a godere l’attimo fuggente. E’ un tema che verrà ripreso da Omar Khayyam, due secoli dopo: "La vita passa, rapida carovana! / Ferma il tuo cavallo e cerca d’essere felice". E anche: "Chiudi il tuo Corano, pensa / e guarda liberamente li cielo e la terra".

Il califfo Harun al Rachid riceve un’ambasceria di Carlomagno.

Nel frattempo è salito al trono il giovane Harun al-Rachíd e Abu Nuwas raggiunge Baghdad in cerca di favori e benevolenza. II nuovo califfo appare illuminato, ma è pur sempre un tiranno in fatto di stravaganze e capricci. Il rapporto col poeta è conflittuale, e quando nel sovrano prevale il ruolo dì difensore della fede, non esita a sbatterlo in galera per i suoi versi impertinenti. Tutto precipita rovinosamente con la congiura dei Barmesídi. Harun al-Rachíd fa massacrare il primo ministro Yahya e i suoi familiari, mecenati di Abu Nuwas. Il poeta è costretto all’esilio e compie l’hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, per poi riparare in Egitto. Rientra solo con la morte di al-Rachíd, a cui succede ìl figlio al-Amin, suo antico allievo e protetto. E’ il trionfo della poesia definita "bacchica", che mescola l’eros all’ebbrezza del vino, mentre in lontananza lo spettro e la paura della morte non fanno che rendere più intenso il piacere: "Ho lasciato le donne per i ragazzi / e ho preferito il vino vecchio all’acqua fresca" scrive spavaldo il poeta. E pur sapendo di attirarsi i fulmini degli ulema, li provoca: "Quando il mio ragazzo m’ha lasciato / ho chiamato Satana e gli ho detto: / se non fai rinascere l’affetto nel suo cuore / - e so che tu lo puoi - / io non scriverò più poesie e non ascolterò più canzoni. / L’ubriachezza non scorrerà più nelle mie vene e mi metterò a studiare il Corano./ Mi darò al digiuno e alla preghiera, / seguirò il Bene per tutta la vita. / Non sono passati tre giorni / che il mio amato è ritornato e m’ha chiesto, in ginocchio, perdono".

Al Amin regna per pochi anni. Gli succede il fratello Abdullah al-Mamun, protettore di arti e scienze ma nemico del vino e della vita libertina. Gli attacchi degli ulema contro il poeta si fanno più minacciosi. Abu Nuwas è uno scandalo vivente perché dichiara che "il piacere è uno stile di vita giocoso a cui tutti hanno diritto". La sua è un’ossessione amorosa: "L’uomo è un continente, / la donna il mare./ Io amo di più la terra ferma".

Per niente spaventato dall’istituzione religiosa, ne attacca l’ortodossia: "C’è un persiano cristiano, scolpito nella sua tunica / che lascia intravedere un collo freschissimo. / E’ così elegante e d’una tale bellezza / che cambierei di fede - se non di Creatore - per i suoi begli occhi. / E se non temessi la persecuzione di un clero tirannico, / io mi convertirei con ogni merito e onore".

Sulla sua morte esistono versioní contrastanti. Dovrebbe essere avvenuta intorno all’815. C’è chi dice che morì in prigione, altri che fu avvelenato e persino che finì tranquillamente la sua vita nella Casa della Saggezza. Resta il poeta più amato e ineguagliato della letteratura araba. Diceva di lui al-Jahiz: "Non ho mai incontrato nessuno che conoscesse meglio la lingua araba e s’esprimesse con una purezza tale da impedire ogni intento sgradevole". Eppure, a dispetto della sua "classicità", Abu Nuwas resta un autore proibito. E non è l’unica vittima dell’oscurantismo. Ancora gira mutilata, in Egitto, la versione delle "Mille e una notte". Ha dell’incredibile che il testo su cui si fonda tutta la letteratura araba sia ancora ipocritamente purgato.

Ma non scandalizziamoci. L’Occidente non è indenne da questo vizio. Penso alla grande stampa americana embedded sull’Iraq e alla bufala sull’arsenale atomico di Saddam. Viviamo una tragica affinità. Da una parte, basta una vignetta sul Profeta a decretare condanne a morte. Dall’altra, l’imitazione televisiva del segretario del Papa è vista come un atto di lesa maestà. Immaginatevi Dante Alighieri riservare al papa attuale quello che fece al contemporaneo Bonifacio VIII, scaraventato all’inferno nel girone dei simoniaci, infilandolo, capovolto, dentro un buco nel terreno, con le gambe di fuori che bruciavano come tizzi. Che gli succederebbe oggi?

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