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QT n. 8, 19 aprile 2008 Monitor

“La banda”

Un film toccante, istruttivo, su una banda musicale egiziana che si perde in terra di Israele e ripara presso i coloni di un kibbutz. In scena non i problemi politici, ma i rapporti, le relazioni, i fallimenti di due gruppi di persone spaesate, nella storia e nel deserto.

Un piccolo film, prezioso. "La banda" è una commedia lenta che segue un gruppo musicale egiziano, la Banda della Polizia di Alessandria, che va a suonare in un centro culturale arabo in terra d’Israele ma sbaglia direzione, si perde. A inizio film, incontriamo i musicisti appena scesi da un furgoncino, in riga, a una fermata. Si portano dietro le custodie con i loro strumenti, indossano divise color celeste, impeccabili e vestite impeccabilmente.

Il regista Eran Kolirin, israeliano, sceglie inquadrature semplici, spesso fisse, che assecondano il contesto in cui la banda finisce per muoversi. Qualche cenno del caos mediorientale si percepisce solo quando la banda chiede informazioni alla stazione centrale degli autobus di Tel Aviv. Per il resto, il Medio Oriente che vediamo è incredibilmente pacato. Non è pacificato, naturalmente. Sembra piuttosto rassegnato.

La banda, sbagliando strada, arriva in un insediamento in mezzo al deserto. Intorno alla banda dalle divise celesti si percepiscono un cielo stinto, una terra chiara, polvere e asfalto. Ritornano inquadrature di fili elettrici, di lampioni trilobati. Il movimento, all’interno di questi piani, è scarso e lineare: la banda trascina per strade secche i suoi strumenti su delle valigette con le ruote. Il ritmo della vita è rallentato anche per i residenti, gli israeliani, fermi a un baracchino, incapsulati in situazioni di stallo, sia in casa sia fuori.

La banda egiziana trova una non entusiasta ma pur gentile ospitalità presso questi residenti. Non si percepisce nemmeno troppa diffidenza reciproca: l’assurdità della situazione sembra depotenziare ogni spirito nazionalista. Per sentirsi a suo agio nel bar dove si fermano a mangiare, a un suonatore egiziano basta appendere il berretto sopra la foto di un tank che commemora una guerra d’Israele.

L’ospite più accogliente è Dina, che invita a casa propria il ribelle della banda – che vorrebbe essere Chet Baker – e il direttore d’orchestra. Con quest’ultimo arriva addirittura a coltivare un sogno romantico, immaginato guardando alla televisione i melodrammi egiziani, che fanno piangere e regalano storie d’amore e finali lieti. Gli ideali romantici e i lieto fine, però, nel contesto che il film racconta, risultano enormemente lontani: il quotidiano non è barocco e colorato ed enfatico come nei mélo, ma vuoto, bianco, surreale. La vita trascorre scarica di senso.

Il film non vuole accennare alla grandezza dei problemi politici. Mostra due gruppi di persone, entrambi smarriti, sia chi è ospite sia chi è ospitato: i titolari della posizione di padrone di casa, gli israeliani, sembrano persi quanto gli altri. Il contesto, anzi, rende praticamente impossibile questa distinzione tra chi è in visita e chi è visitato.

Come la banda che si è perduta in un territorio sconosciuto, anche gli israeliani, paiono chiedersi: "Che ci facciamo qui?". Vivono in un luogo inospitale, dentro case brutte e costruite in fretta. Frequentano tavole calde tristi, parchi senza erba, si siedono su panchine senza vista, litigano in casa... La grande missione di popolare il deserto, il sogno di Ben Gurion di rendere verde e accogliente quel posto invivibile, sono lontani anni luce. Estinti, come il grande orizzonte socialista dei kibbutz, della creazione di uno Stato basato sul lavoro collettivo e sulla parità di classe. Il presente non è più una sfida. Rimangono lo squallore, rimpianti, rassegnazione. Deserto, noia e silenzio.

La banda musicale si inserisce in questo vuoto politico ed esistenziale. Per un attimo, spezza un non dichiarato ma percepito fallimento, a distanza di sessant’anni dalla fondazione di uno Stato. La banda arriva da un Paese confinante, che non da molto non è più nemico. E i due gruppi, i due popoli, sono in grado di parlarsi. Non si dà per scontata la diffidenza reciproca. E’ già un passo, e non è piccolo.

Alla fin fine, il modo che israeliani ed egiziani hanno di relazionarsi a quello spazio ostile tra deserto, mare e montagne sembra compatibile, o addirittura, se lo si volesse, complementare. Almeno qui, in questo film, ebrei e musulmani conoscono una comune malinconia da spaesamento, che non si sa come affrontare. A Dina che gli domanda quale bisogno abbia la polizia di Alessandria di un gruppo che suona le musiche popolari egiziane, il direttore della banda risponde: "E’ come chiedere a un uomo perché ha bisogno dell’anima". Questo strambo gruppo di personaggi invita a riflettere sui posti in cui si decide di abitare. Su come relazionarsi ad essi senza contenderseli, trovando una motivazione per viverci che abbia anima, che non sia determinata solo dalla voglia di possesso e dall’istinto allo scontro.

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