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Cambogia, le tracce dell’orrore

In esposizione la macabra eredità dei Khmer Rossi.

Vincenzo Cottinelli

A chi arriva in battello da Saigon risalendo il Mekong, l’approdo al molo di Phnom Penh offre una moderna riproduzione della scena mitologica di demoni e dèi, buoni e cattivi, che si contendono ferocemente, tirandolo da parti opposte, un lunghissimo serpente. La luce riflessa dal fiume Tonlè Sap, qui poco prima che si unisca al Mekong, è chiarissima e perfino allegra, in contrasto con la cappa di tristezza che grava sulla città. La esprime, questa tristezza, la coppia di giovani immobili alle inferriate anti-suicidio sulla terrazza del Sorya Shopping Center, intenti a guardare la distesa delle case fin verso il fiume. I pochi giardini e gli incroci della città sono invasi da grandi poster trionfali della famiglia reale, Norodom Sihanouk con moglie e figlio: "un re, un despota, di spaventosa piccolezza, incapace di una riflessione intelligente sulla storia di questi anni" (Tiziano Terzani).

Phnom Penh

Non è questo l’unico emblema del potere visibile in città: qui - come del resto nei paesi e nelle campagne di tutta la Cambogia - sono frequenti le insegne del Cambodian People’s Party (KPK), l’onnipotente e votatissimo partito, vagamente comunista, che esprime e mantiene al potere dal 1985 il premier Hun Sen, già ministro degli esteri del primo governo instaurato nel 1980 dai vietnamiti, quando liberarono la Cambogia dai Khmer Rossi; ma prima ancora era stato capo di un reggimento di Khmer Rossi. Ne sono passati, di anni, fra strascichi di guerra civile, colpi di stato, negoziati internazionali e compromessi, per arrivare al 2003 e all’istituzione di una "Sessione straordinaria delle Corti Cambogiane" che persegue i delitti dei pochi superstiti della banda di Pol Pot (morto nel suo letto nel 1998) sui quali si è raggiunto un accordo di incriminazione. La fase istruttoria pare ultimata e forse ci si avvia ai dibattimenti.

In una periferia caotica al di là dell’aeroporto uno smagliante portale in stile Khmer classico, ben guardato da militari, inquadra un lontano inaccessibile palazzo di giustizia. Chissà che, da Angkor Wat, non intervenga il potente Vishnu dalle otto braccia, venerato anche come difensore del diritto e della verità, contro i perfidi caimani che nell’antichità simboleggiavano il male, e che i Khmer Rossi più realisticamente usarono come macchine per eliminare prigionieri, mentre ora a Siem Reap sono allevati ed esportati (vivi!) per farne borse e calzature. Il passato è anche tranquillamente consolidato nei cartelli che indicano il Boulevard Mao Tse Tung, ampia circonvallazione per il traffico in crescita, improprio omaggio alla Cina che dei Khmer Rossi è stata sostegno e approvazione. Il consumismo, anche qui prima di tutto il look, l’abbigliamento, la vita di gruppo, è la molla che muove la città e i giovani in particolare: ingenui manichini, patetici appelli alla patria birra sembrano peraltro non smuovere il cipiglio dei demoni del passato, imperturbabili, anzi, piuttosto feroci, come se fossero pronti a colpire ancora, né preoccupare i burocrati protetti dalle rassicuranti immaginette della famiglia reale.

Il futuro? La pace? Il buddismo, rinato dopo le proibizioni e le devastazioni, si candida ed è bene accetto, se non altro per antica consuetudine. Ma i bambini hanno gli occhi grandi, smarriti, attoniti.

Tuol Sleng, scuola di tortura. Se ti fai lasciare all’inizio della viuzza, prima di arrivare all’ingresso di uno dei più sconvolgenti musei della violenza umana, ti sembra di passeggiare in un quartiere residenziale appartato e tranquillo, né ricco né povero, solo triste, come tutta la città. C’è perfino un bucato lungo il marciapiede. Poi ti accorgi che quei poveri abiti appesi sembrano i neri pigiami d’ordinanza dei Khmer Rossi ma anche le vesti grigie delle loro vitttime. Poi noti che quel muro di cinta cui è appoggiato il bucato, ancora con la lamiera ondulata montata negli anni Settanta per impedire di guardare dentro, appartiene proprio all’edificio dell’ex liceo, con la sua bianca architettura razionalista, con le ariose feritoie in alto per combattere il caldo, e la memoria di inaudite sofferenze dentro. Il bucato lo rivedi come buccia dei corpi consumati allora. Diciassettemila, ventimila? Torturati, morti qui o spediti per essere finiti e sepolti comodamente al verde e al fresco nella campagna di Choeung Ek, appena fuori città.

Museo povero, e perciò ancora più eloquente e inconfutabile. All’ingresso, mendicanti mutilati dalle mine (ce ne sono migliaia in tutta la Cambogia, dovunque si vada). Inservienti, bibliotecari, custodi, bigliettai discreti e rassegnati. Pavimenti e intonaci originari. Letti di tortura tali e quali, di ferro, alcuni perfino carini in origine, con accenni di decorazioni. Sopra il letto, strumenti di contenzione, stuoie con tracce di sangue. Insostenibile pena.

Un gruppo di turisti ha un accompagnatore che traduce loro in una lingua un po’ strana le spiegazioni della guida: sono israeliani. Unicità della Shoa? Chissà che pensano. Di stanza in stanza, di letto in letto, finisci poi alla "mostra fotografica" che ha perfino già avuto gli onori dei "Rencontres d’Arles" di qualche anno fa. Se si escludono alcune riprese a figura intera, come quella della mater dolorosa col bambino in braccio forse già morto, il montaggio di centinaia di fototessere schierate in bell’ordine sembra fare il verso ai busti dei bassorilievi di Angkor. A parte i morti, i cui occhi guardano nel nulla, tutte le facce, centinaia e centinaia raggruppate in tipi uguali per genere e perfino per cappello, ti guardano con espressioni indefinibili. Attonite? Spente? Disperate? Innocenti? Inconsapevoli? In realtà non guardano noi: guardavano in macchina su perentoria richiesta di Nhem En, ventenne fotografo ufficiale agli ordini del mostruoso direttore Duch. Il fotografo è libero, mentre Duch è ora agli arresti in attesa di processo.

Noi vediamo quegli occhi nel momento in cui guardavano il fotografo che li guardava per controllarne la corretta postura di testa e sguardo, ma non poteva dir nulla, cioè non poteva dire loro che immancabilmente sarebbero stati torturati e poi uccisi. Gli occhi seri di giovani cambogiani guardano ora quegli occhi e quei morti fotografati prima di morire. Nelle belle stanze luminose, con la bella scacchiera bianco e senape del pavimento in cemento, c’è un silenzio assoluto.

Campo di sterminio di Choeung Ek. Non è stato facile farsi portare fuori città, al campo di sterminio di Choeung Ek: la guida, "Mister T", dipendente del Museo Nazionale, gentile e colto, sembra restio, insiste per dare la precedenza alle visite artistico-archeologiche. Ma alla fine rispetta il programma. Gli chiedo allora quanti anni aveva ai tempi del Khmer Rossi: fra i quindici e i venti. Dunque ricorda tutto, abbassa gli

occhi, ammutolisce. Durante il tragitto si stempera, capisce il mio interesse, racconta sobriamente: famiglia di insegnanti, all’arrivo dei Khmer Rossi sono fuggiti in campagna da parenti contadini che li hanno "mimetizzati" e perciò salvati. Ma il padre, prelevato prima, è scomparso senza lasciare traccia. Si muove cauto e silenzioso nel verde soffice della campagna intorno all’edificio, strutturato su sei piani di teschi. Non c’è molto da spiegare. Camminiamo su strati di corpi sepolti di cui affiorano pezzi di abiti e ossa lisciate dai passi dei visitatori. Non si percepisce un oltraggio, il sentiero è stato tracciato così, forse non c’erano alternative se si voleva offrire una visita completa, forse camminarci sopra è comunque partecipare e ricordare. Le camionate di prigionieri portati qui da Tuol Sleng più tanti altri, migliaia e migliaia. Solo grida: non spari, "solo" bastonate (e altro, per i bambini). I bassorilievi di Angkor, come profezia, riportano "le stesse scene di tortura, la stessa gente squartata, fatta a pezzi, impalata, uccisa a bastonate, data in pasto ai coccodrilli" (Tiziano Terzani).

L’oltraggio è semmai oggi la smagliante natura, il sole splendido, l’abbondanza di acque intorno. Si vorrebbe il freddo grigio di Auschwitz d’inverno. Solo dentro l’edificio "Mister T" sembra oppresso e lo fa capire cogli occhi. Ma capisce anche che è giusto che lo si veda e non si oppone a lasciare testimonianza ai miei scatti fotografici.