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Dalla parte dei freaks

“Mostri contro alieni”

Arrivano gli alieni. Il presidente degli Stati Uniti (gli extraterrestri atterrano sempre in America) si prepara a riceverli. Sale una lunga scalinata che lo porta all’altezza dell’astronave. Come si fa, però, a parlare ai marziani? Che lingua si usa? Seguendo lo stereotipo classico, il presidente sceglie il linguaggio (cosiddetto) universale della musica. In cima alla scala c’è una tastiera. Suona qualche nota dalla soundtrack di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Ma poi passa subito al tema di “Beverly Hills Cop”, un funky-pop tremendamente anni Ottanta.

Questa scena di “Mostri contro alieni” fa ridere. Fa ridere i bambini perché si vede una persona seria, il presidente degli Stati Uniti, che si dimena esaltato davanti a una tastierina. E fa ridere l’adulto che coglie le citazioni dai due film. La parodia e la citazione sono uno dei mezzi principali con cui i film d’animazione, un tempo oggetto esclusivo della visione infantile, assicurano agli adulti che la trama è studiata (anche) per loro. Ma oltre a questo, la scena fa ridere l’adulto per gli stessi motivi per cui fa ridere il bambino: la vena pop di un potente della Terra. Film come “Mostri contro alieni” creano un universo inter-generazionale di divertimento puro, di invenzioni senza freni.

Al di là delle componente parodistica e della creatività a briglia sciolta, a dare ulteriore peso culturale alla nuova animazione è la mancanza di timore nell’affrontare i discorsi sui “grandi valori” – quelli attorno ai quali molto cinema “adulto” (Clint Eastwood a parte) non sa più come girare per poterli approcciare in modo non retorico. “Mostri contro alieni” riesce infatti a lanciare un piccolo messaggio morale senza essere pedagogico.  Ci fa vedere come delle persone di cui all’inizio ci si vorrebbe solo sbarazzare (rinchiudendole e nascondendole nella famosa Area 51) possono salvare il mondo. Sono i mostri del titolo, dei veri e propri freaks, devianti per eccesso di vicinanza con il mondo animale (lo scienziato-mosca, l’anfibio) o per errori nelle proporzioni (la gigantessa, l’enorme pelouche).

La morale non si dà, come in Esopo, in un’appendice al racconto. Non emerge da pesanti voci off: è la storia stessa a mostrare quale sia la risposta eticamente corretta allo stimolo. La giustizia si crea dal basso, costruita com’è dalle necessità del racconto. A “farci la morale” è il comportamento vagamente disgustoso di un mostro fatto di gelatina; o, in un altro film di animazione come “Wall(e)”, gli stridenti suoni elettrici di un robottino.

Stupisce, felicemente, la facilità con cui parodia e valori, testo e sotto-testi, ironia e morale, si uniscono per amplificare l’assurdo della nostra esistenza. Nella war-room, il presidente degli Stati Uniti ha due pulsanti enormi, rossi e senza scritte: uno serve a farsi servire il cappuccino, l’altro a decretare la fine del mondo.

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“Questione di cuore” di Francesca Archibugi

Due infartuati si conoscono in ospedale. Il resto del film continua ad allontanarsi e a ritornare sul tema della malattia. I volti malinconici cui le parole vengono affidate sono quelli, perfetti, di Antonio Albanese e a Kim Rossi Stuart. Il taglio della sceneggiatura è felicemente in equilibrio sul crinale acuto tra ironia e dramma. Un neo: rinunciando ai riferimenti meta-cinematografici sarebbe stato un film migliore.

“Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario

L’intenzione è meritoria: Davide Ferrario realizza un film in carcere, alle Vallette a Torino. E non si accontenta di far recitare i detenuti: li fa muovere, cantare e ballare, come in un musical. La scommessa, fino a qui, funziona. Non funziona più quando si abbozzano discorsi troppo complessi (su Cristo, passione, redenzione...) e quando la trama si attorciglia maldestramente prima di trovare un finale, perdendo tutto il pregio della semplicità. Una maggior dose di modestia avrebbe reso “Tutta colpa di Giuda”  un film importante.

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