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Poliglotti nell’impero, monolingui nell’autonomia

Lo sconfortante confronto fra le aperture mentali di un tempo e la grettezza odierna.

La chiesa serbo-ortodossa di Trieste col piccolo edificio della scuola e palazzo Vukovitch prima della ristrutturazione (1900 circa).

Le peregrinazioni estive hanno portato chi scrive a visitare alcune mostre storiche a Trieste, una città di frontiera in cui le radici di diverse culture locali si intrecciano spesso drammaticamente (vedi Boris Pahor, Il rogo del porto, solo di recente tradotto in italiano) con la tradizione di città “italianissima”, inventata al momento dell’annessione all’Italia.

Mentre a Bolzano vuota di insegnanti, scolari e genitori, si riaccende il dibattito sulla scuola bilingue, coi soliti divieti e le promesse della propaganda, mi ha colpito osservare come la vita e il successo delle comunità che fecero grande Trieste dalla metà del ‘700 furono accompagnate da un forte impegno per l’educazione delle nuove generazioni a una realtà pluriculturale.

La mostra “Genti di San Spiridione” racconta la formazione e il successo della comunità serba, chiamata illirica, a partire dal 1751, quando l’imperatrice Maria Teresa volle farne un porto franco. Si deve al generoso lascito di un ricco mercante, analfabeta ma poliglotta, Giovanni Miletich, la nascita nel 1782 di una scuola per i bambini illirici, intitolata da allora appunto a Jovan Miletic. I mercanti, armatori, assicuratori triestini provenivano da molti luoghi, dentro e fuori dell’impero, attirati dai privilegi promessi a chi voleva lavorare nel porto e nella città. Parlavano le lingue necessarie a contrattare e trasportare le merci (colla, cotone, zolfo, capperi, zafferano, fichi, gomme, manna, galla, olio, uva di Smirne, pelli, tabacco, grano e altro) dal Levante vicino e lontano, con i loro bastimenti, comperati a quote (“carati”), e a gestire fondachi anche in città orientali, come Odessa sul mar Nero. Parlavano dunque greco, russo, illirico, tedesco, italiano.

I loro figli, fra i 200 e i 300 all’inizio dell’800, studiavano nella scuola, riconosciuta e regolata dall’impero, le materie ritenute importanti dal Consiglio della scuola, composto dai cittadini più in vista della comunità, che ci mettevano anche i loro denari: anzitutto la lingua madre, l’illirico, lettura, scrittura e grammatica, e inoltre il canto, l’aritmetica, le lingue straniere, il tedesco, lingua dell’impero, l’italiano, lingua ufficiale del porto franco, e il latino. Ma chi dia un’occhiata ai titoli della straordinaria biblioteca, trova libri anche in francese e altre lingue. Molto è dovuto agli insegnanti: scelti accuratamente, essi erano spesso viaggiatori, docenti in università della Germania, dell’Austria o dell’Ungheria, e portavano idee nuove, con cui i giovani triestini serbi venivano in contatto aprendosi alle novità del mondo.

La geografia mentale dei serbi di Trieste, e probabilmente quella dei greci e degli ebrei e di tutte le altre comunità, si estendeva infatti attraverso confini di imperi e nazioni, religioni e culture. Lo confermano alcuni testamenti in cui ricchi mercanti, oltre che agli eredi, lasciano generosi legati a scuole e monasteri, sparsi dai Balcani alle terre vicine alla Russia, in decine di luoghi situati in genere lungo le vie terrestri e fluviali dei commerci.

L’impegno verso l’educazione plurinazionale terminò sul finire dell’800, con la nascita dei nazionalismi che avrebbero distrutto l’impero asburgico. Da Vienna arrivarono le organizzazioni che cercavano di tedeschizzare la città; nel 1881 nacque la Lega Italiana, con le sezioni della Venezia Giulia e del Trentino, per “promuovere l’amore e lo studio della lingua italiana e soprattutto l’istituzione e il mantenimento di scuole italiane entro i confini dell’impero, in luoghi di popolazione mista, specialmente sul confine linguistico” (dai materiali della mostra “Lega Nazionale 100 anni di propaganda”). Anche la scuola serba non venne più ritenuta adeguata, e si cercò di rinsaldare i legami con la madrepatria di fresca nascita, importandone docenti, materiali e nuove aspirazioni nazionali.

Il resto lo si conosce, ne troviamo una sintesi rapida nelle parole di uno scrittore di frontiera. Al tramonto dell’Austria felix, - scrive Fulvio Tomizza, cui è dedicata a dieci anni dalla morte una bella mostra nel palazzo Gopcevich (ristrutturato nel 1845 in forma neoromantica da Spiridione Gopcevic, armatore serbo), - “a ognuno fu chiesto di rinvangare la lontana origine italiana oppure slava e più di uno se la scelse a seconda dello stato economico, delle aspirazioni e degli umori del momento” (Tomizza, Autoritratto, 1977).

La scuola non ebbe più la funzione di educare alla realtà multiculturale, ma di formare nuove generazioni concentrate sulla difesa della propria cultura tradizionale e pronte a negare quella altrui. Oggi che la scuola è oggetto di un attacco da parte del governo che ne taglia i finanziamenti, e di un partito della maggioranza che vuole regionalizzarla, e che in provincia di Bolzano si continua a negare un’educazione realisticamente bilingue o plurilingue, mi pare che valga la pena riflettere sull’amore per la conoscenza dei mercanti triestini del ‘700, appassionati di scuola ed editoria, e anche su quanto, pochi anni fa, ha detto Nelida Milani, docente e scrittrice di Pola, sull’esaltazione del dialetto: “È un’educazione che glorifica i particolarismi al fine di promuovere gli esclusivismi, esorta la propria nazione a unirsi, ad autoadorarsi opponendosi agli Altri nella sua lingua, nei suoi usi e costumi, nella sua cultura, nella sua civiltà. In cui civiltà vuol dire fare della propria condizione un modello, delle proprie abitudini particolari attitudini universali, dei propri valori criteri assoluti di giudizio”.