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Bastardi senza gloria

Una storia bastarda

La storia non si fa con i se e con i ma. Con i se e con i ma si può fare del grande cinema. Quentin Tarantino si piazza con tutto il suo apparato giocoso e grandguignolesco all’interno di un contesto terribilmente serio: quello della seconda guerra mondiale. Non c’è molto da scherzare, si direbbe. E infatti Bastardi senza gloria, scherzando, dice solo cose serie. C’è una sporca dozzina, “i bastardi”, un commando di ebrei che impazza per i Paesi occupati torturando nazisti. Ci sono spie inglesi. C’è una sopravvissuta a uno sterminio che gestisce una sala cinematografica a Parigi. Dall’altra parte c’è un cacciatore di ebrei. C’è un eroe di guerra della Wehrmacht, un cecchino. Ci sono Goebbels e Hitler.

Per dare un’idea dell’ibridismo culturale su cui tutto il film si basa, è sufficiente dire che i bastardi ai nazisti fanno lo scalpo, come gli indiani in un western. L’arte può tenere insieme queste contraddizioni: il film di Tarantino mescola film d’essai e serie b, spaghetti-western e war-movie, cinema italiano e giapponese e americano. Ma la Storia? C’è il modo per star vicini e tollerarsi anche nella Storia? Tarantino sembra preoccuparsene. Tensioni linguistiche, infatti, complicano le relazioni interne tra i personaggi: il problema fondamentale è quello di capirsi. I conflitti, prima di tutto, nascono quando si salta da una lingua all’altra: quando il nazista inizia a parlare inglese per non farsi capire dagli ebrei nascosti sotto il pavimento; quando uno dei bastardi, in una taverna, tradisce con un piccolo gesto il suo non essere tedesco; quando Brad Pitt e soci si fingono siciliani (nella versione originale: semplicemente italiani) per entrare nel cinema.

Di fianco a questo problema ce n’è anche un altro. Brad Pitt, quando ammazza i nazisti, lascia sempre un sopravvissuto, perché sia testimone della feroce determinazione dei bastardi. Prima di liberarlo, gli sfregia la fronte con una svastica. E gli fa una predichetta che richiama, in un’autocitazione, il discorso di “Ezechiele” (in realtà nell’Antico Testamento quei versetti non esistono) di Samuel L. Jackson in Pulp fiction. Dice Brad Pitt: è troppo facile rinnegare quello che si è stato in nome di una nuova appartenenza, o anche di una nuova coscienza. In qualche modo dei propri errori, quando sono così gravi, bisogna portare lo stigma.

Il discorso, da sincronico e interpersonale, diventa quindi diacronico e intrapersonale. La questione della credibilità non è più declinata in riferimento ad altri (Pitt come italiano-siculo non è credibile) ma a se stessi. Si tratta di pagare le conseguenze delle proprie scelte. E, prima ancora, di avere il coraggio di fare le scelte giuste quando è il momento di farle. Rinnegarle, rinnegarsi dopo, è troppo facile.

In coda al film c’è un ragionamento sulla storia del cinema. La quale, per tutto il Novecento, si costituiva in storia di pellicole. Nel 1946 André Bazin scriveva: “Centinaia di migliaia di schermi ci fanno assistere, all’ora del cinegiornale, alla formidabile desquamazione che secernono ogni giorno decine di migliaia di macchine da presa. Appena formata, la pelle della Storia cade in pellicola”. Oggi la pellicola è quasi solo un elemento di nostalgia. E le centinaia di migliaia di schermi, più piccoli di quelli su cui ragionava Bazin, sono diventati diversi miliardi. La pelle della Storia non fa in tempo a cadere che già la vediamo moltiplicarsi e dissolversi come quando ci si avvicina a un quadro puntinista.

Tarantino sancisce la morte della pellicola, che passa a miglior vita come Sansone, distruggendo, insieme a se stessa, qualche centinaio di filistei, alcuni di rango assai elevato. La morte del cinema, invece, appare ancora lontana dall’essere celebrata. Almeno finché ci sono registi come Tarantino che costruiscono storie da altre storie. Senza farle sembrare usate. Anzi, rilanciando a getto continuo l’idea di nuove trame che danno spazio a forme capaci di superare se stesse.

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