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QT n. 2, febbraio 2010 Cover story

Lavori sporchi. Lavori da donne. Immigrate.

La presenza femminile fra gli stranieri ha superato quella maschile. E nei servizi non si può più fare a meno di loro. Ma se decidessero di scioperare?

Puliscono le nostre case, i nostri ospedali, i nostri uffici. Curano i nostri anziani, accompagnano i nostri malati. Cucinano le nostre cene e ci rassettano la stanza d’albergo. A volte affidiamo loro i nostri bambini. A volte i nostri più inconfessabili desideri sessuali.

Sono donne, per lo più di religione ortodossa, ma anche musulmane e provengono in maggioranza dai paesi dell’Est, dal Nord Africa, dai Balcani e dall’America del Sud. Donne che - e per la prima volta in Trentino - hanno superato in quantità gli immigrati di sesso maschile.

Donne e immigrate, quindi doppiamente discriminate, strette negli interstizi di una società sempre più vecchia, che affida loro il compito di sopperire alle carenze di un welfare sempre più striminzito e di mettere le mani là dove gli autoctoni non le metterebbero mai. Costrette a giostrarsi tra famiglia e lavoro e magari a gestire la sofferenza di altri, oltre che la propria. Costrette a subire la doppia morale di una comunità che non può fare a meno di loro, ma che fa finta di non vederle. E che si permette magari di discettare sulla loro religione.

Zorica

Zorica

Quando ha visto le immagini di Rosarno, della incivile e barbara caccia agli immigrati, Zorica ha pianto.

Eppure è una tipa tosta, che nella vita ne ha viste di tutti i colori. Semplicemente, assistere a quelle scene da Far West le ha ricordato la sua esperienza di immigrata in Italia, iniziata 16 anni fa a Caserta. E ancora adesso, a ripensarci, si commuove.

In Serbia, nella sua piccola cittadina in mezzo alle montagne, lei e suo marito possedevano tre negozi, ma l’inflazione e la crisi economica hanno costretto tutta la famiglia ad emigrare: lei, diplomata al liceo linguistico e con un corso di ragioneria alle spalle; lui, laureato in ingegneria. A Caserta. A raccogliere tabacco.

«I primi mesi di lavoro sono dimagrita di 17 chili - racconta - e mi dovevo riempire di antidolorifici per poter riuscire ad andare avanti». Naturalmente tutto al nero, per sei anni, a volte dalle 4 del mattino alle 10 di sera, per 30.000 lire al giorno: giusto di che pagare l’affitto, le bollette e mandare a scuola i due figli.

Poi la decisione di trasferirsi al Nord, alla ricerca di migliori condizioni di vita: Zorica e il marito trovano lavoro all’ospedale S. Chiara come addetti alle pulizie presso un’azienda che conta oltre 640 lavoratori, impegnati nella pulizia dei sei ospedali trentini.

Per la prima volta Zorica ottiene un contratto vero e, per questo, lavora «con il cuore». Part-time, dalle 17 alle 21, ogni giorno su e giù per i corridoi dell’ospedale, dentro e fuori dalle stanze dove riposano i malati. Insieme a lei centinaia di colleghe, all’80% immigrate visto che le italiane questi lavori non li vogliono fare. E come dar loro torto per 5-600 euro al mese lordi in tasca e un lavoro massacrante e per niente valorizzato?

Senza contare le discriminazioni che tocca subire ogni giorno: Zorica si è scritta tutto sulle sue agendine, fin quasi dal primo giorno in Italia. «È una cosa che ho imparato a fare qui - racconta - come anche a fare una fotocopia di tutto e a tenerla da parte. Non si sa mai». Imbarazzante. Per noi, dico, noi italiani brava gente.

Uno sporco lavoro

Il peggio è che, come spiega questa coraggiosa signora serba, le cose sotto questo punto di vista si sono incancrenite negli ultimi due anni. Come giudicare ad esempio quei pazienti che quando in stanza entrano le donne delle pulizie immigrate, mettono via i cellulari e si stringono le borse al petto? Eppure: «Non c’è mai stato un furto da parte delle donne delle pulizie». O quelli che vorrebbero impedire alle donne di colore («Loro - dice Zanica - sono quelle più discriminate») di entrare in stanza?

Poi c’è il caso di quella caposala che non voleva lavoratrici immigrate nel suo reparto: «Alla fine non ci andavamo più nemmeno noi, così l’Azienda sanitaria è dovuta intervenire», racconta Zorica.

Sul lavoro i rapporti con i (le) superiori non sono certo migliori: «I lavori più pesanti finiscono invariabilmente per farli le colleghe immigrate, mentre alle italiane vengono risparmiati». Zorica parla malvolentieri di questo problema: «Io sono una sindacalista - sottolinea - e devo essere imparziale con tutti. Ma queste cose sono evidenti».

Per battersi contro condizioni di lavoro pessime, ha deciso di candidarsi per la FILCAMS-CGIL all’ospedale: è l’unica delegata straniera, e per questo è stata anche minacciata. «Ma io continuo a dire quello che penso» e le sue colleghe continuano a votarla.

Il carico di lavoro all’ospedale S. Chiara è aumentato in continuazione negli ultimi anni: alle donne delle pulizie sono stati affidati lavori che prima erano degli operatori socio sanitari: è il caso della pulizia delle sale operatorie, che per un mese ha fatto anche Zorica. «È un lavoro delicato - racconta - e quando torni a casa la sera devi poter essere tranquilla, dal momento che lì aprono la gente. Non puoi lasciare nemmeno una macchia». Un lavoro durissimo, che si rivela ben presto impossibile da fare bene nel tempo previsto. Così la lavoratrice di origine serba decide di tornare alle sue precedenti mansioni: «Oggi lo fanno altre straniere, che corrono per 6-7 ore e non credo che riescano a fare il lavoro come si deve».

La compressione dei tempi ha avuto conseguenze evidenti sullo stato della pulizia in ospedale: «Noi siamo molto brave - sottolinea Zorica - ma siamo poche. Tre-quattro anni fa il S. Chiara era al primo posto per le pulizie nella classifica nazionale, ma ultimamente siamo scesi perché hanno aperto altri reparti sempre nuovi. Però la gente non è abbastanza per pulire».

La lotta paga

Milano, due promotrici durante la presentazione del Comitato 1° marzo.

Difficile però ribellarsi, fare sentire la propria voce: «Ci sono tanti immigrati che hanno paura, è la caratteristica dello straniero, tutti hanno paura di qualsiasi cosa... Paura di perdere il posto di lavoro o il permesso di soggiorno».

E i superiori lo sanno: «Quando c’è qualche emergenza - racconta Zorica - vanno dalle lavoratrici immigrate, che non hanno il coraggio di rifiutare».

A volte la discriminazione da sottile si fa evidente: come quando una caposervizio impone alle lavoratrici di parlare tra loro in italiano prima dell’inizio del turno, in magazzino, mentre chiacchierano tra loro.

A questo si aggiunge l’impossibilità di puntare all’ascesa individuale, alla carriera. Lo dicono chiaramente i superiori di Zorica, senza vergognarsene. Come la caposervizio (italiana) che in risposta alla richiesta di una lavoratrice immigrata sbotta: «Una caposervizio straniera? In questa azienda? Impossibile».

Grazie all’impegno del sindacato, le condizioni sono un po’ migliorate negli anni: «Al S. Chiara - spiega Ezio Casagranda, segretario della FILCAMS-CGIL - abbiamo fatto il primo contratto integrativo di tutta Italia, con un’azienda che ha 15.000 lavoratori in tutto il paese». La FILCAMS-CGIL con la sua iniziativa e con l’appoggio delle lavoratrici ha ottenuto per loro un bonus annuale di 500 euro e la possibilità di fare non due (come da contratto nazionale), ma quattro settimane di ferie; cinque di fila se vengono prese fuori dal periodo estivo, in modo da permettere alle lavoratrici di tornare a casa. «Non abbiamo bisogno di sindacalisti che vanno a bere il caffè con le capo servizio - dice Zorica - ma di sindacalisti che si battono per noi».

E a noi, chi ci bada?

«In Moldavia lavoravo al tribunale. E poi ho deciso di venire in Italia per un paio d’anni, per far soldi, per comprarmi la casa».

«Prima ho fatto college come infermiera. Scuola diciamo, scuola di infermiera e ho lavorato come infermiera quindici anni in sala operatoria».

Due storie tra le tante, di badanti, entrambe moldave, raccolte nella ricerca che il Cinformi ha dedicato nel 2009 alle assistenti familiari, curato da Nora Lonardi. È uno dei dati più impressionanti che emerge dal questionario distribuito ad alcune famiglie trentine, che ha permesso di tracciare il profilo di 88 assistenti familiari. Il 16,2% di esse, infatti, possiede una laurea o un titolo post-laurea; il 10,3% un diploma para universitario e il 35,1% un diploma di scuola superiore.

Si presume che in Trentino le badanti siano circa 2.000, di cui soltanto una su tre si troverebbe in una posizione regolare: il 43% sarebbero irregolarmente presenti in Italia, il 24% sarebbero senza contratto ma con permesso di soggiorno e il 33% sarebbero assunte con contratto di lavoro.

«Tanta fatica si fa. Perché - racconta alla ricercatrice una donna moldava - le persone sono pesanti, tu li tiri sulle spalle, li prendi, li sposti, è una fatica. Quello che fanno in ospedale le OSS, le badanti lo fanno da sola».

Quasi il 26% delle badanti oggetto dello studio lavorano oltre le 40 ore settimanali, mentre lo stipendio medio mensile è di 854 euro. Ma si tratta, in questo caso, di assistenti familiari regolarmente contrattualizzate; il dato è quindi da prendere con le pinze, dal momento che le badanti regolari sono soltanto la punta dell’iceberg.

Alexandra Cacuci, rumena, è la referente Cinformi di “Promocare”, una cooperativa che si occupa di fare incontrare potenziali assistenti familiari e famiglie alla ricerca di aiuto. «Ogni giorno - spiega - incontro almeno 6-7 donne che vorrebbero fare le badanti».

Quali sono le esigenze delle famiglie? «La maggior parte hanno in casa delle persone da assistere con patologie difficili e magari non possono avere accesso immediato a un posto in casa di riposo». Così le badanti si trovano spesso a dover gestire situazioni difficili: «È un lavoro molto impegnativo, soprattutto dal punto di vista psicologico: queste donne già hanno i loro problemi personali, in più devono affrontare quelli degli altri».

Le più a rischio sono le donne che hanno una educazione superiore alle spalle, per le quali il contrasto tra aspettative e realtà è ancora più frustrante: «Ne vedo tante che vanno in crisi - racconta Alexandra Cacuci - però non possono tirarsi indietro, hanno preso degli impegni, magari hanno fatto dei debiti».

La convivenza con abitudini diverse - nel cibo, nella gestione della casa - non è sempre facile. E poi, come conferma la responsabile “Promocare”, c’è ancora una grande diffidenza ad assumere assistenti famigliari di origine musulmana: «Fanno fatica ad essere accettate, le famiglie preferiscono piuttosto donne dell’Est o sudamericane, credo per affinità culturale». E comunque c’è poco da fare i difficili: la badante è indispensabile per coprire un buco nel welfare grande come una casa, tanto che a volte non si esita a ricorrere al lavoro nero per riuscire a rispondere alle esigenze dell’assistito, spesso affetto da gravi malattie e che necessita di cure 24 ore su 24. Donne invisibili, la cui vita scivola parallela alla nostra, eppure indispensabili, delle quali il Trentino - ormai - non potrebbe fare a meno. Sarebbe molto, ma molto meno doloroso privarsi della rozza ignoranza di qualche inutile leghista.

Testa bassa e pedalare

Un tempo gli italiani erano considerati i «negri d’Europa» (secondo la definizione degli scienziati razzisti USA) e da migranti erano costretti ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione: i più umilianti, quelli meno considerati. La stessa cosa accade oggi, in Trentino: gli stranieri sono là dove gli italiani non accettano più di stare, dove i salari sono più bassi e le possibilità di migliorare la propria situazione sono minime. Questo è tanto più vero per le donne immigrate.

Secondo gli estensori del rapporto Cinformi 2009, la concentrazione nelle qualifiche più basse è confermata dalle posizioni ricoperte: l’80% dei lavoratori stranieri è classificato come operaio, e «non si osserva una tendenza lineare verso il miglioramento della qualità dei posti di lavoro ricoperti dagli immigrati». Una situazione riscontrabile in particolare nei servizi, che assorbono ormai in Trentino più della metà delle assunzioni di immigrati, pari a quasi 23.000 rapporti di lavoro attivati nel 2008, su un totale di 44.459.

Una immigrazione che risponde a un’esigenza essenziale dell’economia dei paesi occidentali: studiosi quali Saskia Sassen (citata nel rapporto 2009) mettono in rilievo «l’inserimento degli immigrati nei livelli inferiori della complessa economia dei servizi». E ancora: «Tanto la manutenzione delle strutture, quanto l’organizzazione della vita privata delle classi abbienti, richiedono in maniera crescente l’apporto regolare o irregolare, di questa nuova classe di lavoratori dei servizi». Che però paiono sempre meno disposti a farsi mettere i piedi in testa. Su 1015 conflitti tra lavoratori e aziende seguiti nel 2008 dall’Ufficio Vertenze della CGIL del Trentino, oltre il 36% hanno riguardato lavoratori immigrati, la maggioranza dei quali nel settore dei servizi.

A partire dall’inizio del decennio le vertenze fatte dai lavoratori immigrati e prese in carico dalla CGIL sono state in continua crescita, un segno di integrazione secondo Antonio Trombetta, direttore dell’Ufficio vertenze: «I lavoratori immigrati stanno pian piano capendo dove sono. E riconoscono nel sindacato uno strumento di tutela».

La percentuale di donne immigrate che si rivolgono al sindacato è invece in diminuzione: sono poco più della metà degli stranieri uomini. Un dato che si spiega con una maggiore paura e poi con il fatto che spesso un conflitto sul lavoro che coinvolge una donna si risolve con il ritorno di quest’ultima entro le mura domestiche.

Questi lavoratori si rivolgono al sindacato per gli stessi motivi dei colleghi italiani, prima di tutto per ottenere i crediti che vantano nei confronti delle aziende (salari, straordinari, Tfr): nel 2008 l’Ufficio vertenze ha recuperato - in sede di conciliazione o davanti a un giudice - ben 1.233.719 euro, coinvolgendo 754 aziende. Una delle ultime vertenze trattate è stata quella di un gruppo di lavoratori pachistani impiegati da una ditta di Trento che si occupa di distribuire la pubblicità nelle bussole dei condomini.

«Li hanno assunti - spiega Trombetta - in nero o con un contratto di collaborazione e ad alcuni hanno imposto di fare la partita Iva, quando si trattava evidentemente di un lavoro dipendente. Gli veniva consegnata una bicicletta scassata e un pacco di pubblicità da consegnare. Il salario era attorno ai 500 euro al mese».

Ma che cosa succederebbe se i lavoratori e le lavoratrici immigrate/i in Trentino decidessero di abbandonare le bici, i motorini, le scope e le ramazze, le carrozzelle e i vassoi?

«Un Trentino senza immigrati - dice Pierluigi La Spada, coordinatore del Cinformi (struttura della Provincia che si occupa di fornire assistenza agli immigrati) - sarebbe impossibile».

Sciopero!

Il primo maggio 2006 i cittadini di Los Angeles hanno potuto assistere a una manifestazione davvero straordinaria: un milione di persone - in maggioranza «latinos» - hanno sfilato per la città, chiedendo la regolarizzazione degli oltre 12 milioni di lavoratori senza documenti presenti negli USA. E gli Stati Uniti si sono fermati. Che cosa succederebbe in Italia? È la domanda che pongono al nostro paese - pericolosamente avviato sulla china del razzismo e dell’intolleranza - le organizzatrici dello «Sciopero degli stranieri - 24h senza di noi», iniziativa lanciata dapprima su Facebook e poi approdata nel mondo reale, che sta catalizzando le energie del variegato mondo delle associazioni di immigrati e antirazziste (www.primomarzo2010.it).

Un comitato è sorto anche a Trento: l’idea è quella di rendere evidente, attraverso una serie di iniziative come lo sciopero sul lavoro, lo sciopero dei consumi e manifestazioni varie, l’impossibilità di fare a meno degli stranieri nella nostra provincia come nel resto d’Italia.

E per chi quel giorno non potrà astenersi dal lavoro sono pronti i nastri gialli da legarsi al braccio o da appendersi alla giacca: lo stesso nastro che QT porta questo mese in copertina, come segno di adesione all’iniziativa.

Nonostante l’entusiasmo e il fermento che circonda l’iniziativa, non tutti ne condividono i metodi: la CGIL nazionale, infatti, ha accusato le organizzatrici di voler dare vita ad uno «sciopero etnico», che avrebbe il solo risultato di dividere lavoratori italiani e stranieri. Lo pensa Assou El Barji, responsabile stranieri della CGIL del Trentino, che pur apprezzando l’iniziativa ha un timore: «Il mio dubbio è che crei ulteriore frattura all’interno del mondo del lavoro tra autoctoni e stranieri. In Italia si respira un’aria veramente cattiva, di tensione, che non vorrei si alimentasse con questa iniziativa».

Ma l’accusa di voler fare uno sciopero etnico è rigettata da Stefania Ragusa, una delle fondatrici del Comitato Primo Marzo, che spiega come «in tutti i nostri interventi abbiamo sempre sottolineato la necessità di agire insieme, italiani e stranieri, in difesa dei diritti di tutti e sotto il segno della mixité che caratterizza il presente italiano».

Quello del rapporto con i sindacati, spesso poco inclini ad accogliere nuove istanze provenienti dal di fuori delle loro strutture, resta un nodo importante da sciogliere per la riuscita dell’iniziativa. In Francia, dove nasce per propagarsi poi in Italia, Spagna e Grecia, il problema è stato posto molto semplicemente: «Se il sindacato vuole essere dei nostri - spiega Nadia Lamarkbi, una delle organizzatrici francesi - ne siamo felici. Noi andiamo avanti comunque». In Trentino la FILCAMS-CGIL, la seconda categoria con più iscritti immigrati (1084), il primo marzo sarà della partita: «Oggi - spiega il segretario Ezio Casagranda - il sistema usa il ricatto nei confronti degli extracomunitari, più esposti a causa del permesso di soggiorno, per forzare i diritti di tutti quanti. Noi ribadiamo che il problema è dei diritti del lavoro, sociali, che vengono messi in discussione per tutti. Vogliono costruire un nuovo schiavo e non faranno distinzione tra lavoratori immigrati e italiani».

Le cifre

In totale gli stranieri residenti in provincia nel 2008 erano 42.577, di cui il 74,8% non comunitari e il 50,7%, più della metà, donne.

Secondo il rapporto 2009 del Cinformi sulla presenza straniera in provincia (curato da M. Ambrosini, P. Boccagni e S. Piovesan), si sta assistendo ad una femminilizzazione progressiva dell’immigrazione.

Tre migranti su quattro dall’Ucraina sono donne, così come due su tre dalla Moldavia e dalla Polonia. Tra gli immigrati rumeni, che rappresentano il gruppo nazionale più consistente (16,6% del totale) davanti ad albanesi (15,1%) e marocchini (10,7%), oltre la metà (52,6%) sono donne, in tutto più di 7.000. Questo non significa un aumento della percentuale di donne immigrate occupate (in tutto 19.705 quelle assunte nel 2008), dal momento che esse devono sostenere prima di tutto l’incombenza del lavoro familiare di cura. Ma quando escono di casa per lavorare, trovano posto nei livelli gerarchici più bassi, in particolare nel settore dei servizi, come badanti, donne delle pulizie e nel settore alberghiero. Tra di esse, vi sono sempre più immigrate di religione islamica.