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QT n. 1, gennaio 2010 Monitor: Cinema

Come un uomo sulla terra

La sconvolgente verità di un uomo tornato sulla terra

A un certo punto, si vede Dag ripreso dalle telecamere del Tg1, insieme ad altri immigrati sbarcati con lui a Lampedusa. È seduto, schiena accasciata a un muro, lo sguardo stravolto che fissa il vuoto. È a quel punto che, nella mente dello spettatore, succede qualcosa di sconvolgente. Un potentissimo cortocircuito.

Un tipo di immagine che i telegiornali ci hanno abituato a considerare normale, quasi routinaria (un po’ come quella dei bambini africani scheletrici e con la pancia gonfia), normale e routinaria non può più apparire, in quel momento del film. Perché, in quel momento del film, lo spettatore già sa.

Sa cosa è successo a Dag e agli altri. Sa cosa hanno passato Dag e gli altri prima di arrivare lì, a Lampedusa. Lo sa così bene che non può credere che quello ripreso dalle telecamere del Tg1 sia proprio lui, Dag. Perché gli immigrati ripresi normalmente dal Tg1 siamo inconsciamente abituati a considerarli non realtà, ma narrazione della realtà. Quindi, a livello inconscio, finzione. Qualcosa cui non crediamo veramente. La distinzione è fatta da Ascanio Celestini, nella prefazione al libro che accompagna il film.

Tuttavia, arrivati a quel punto del film, quando li vediamo ripresi nel servizio del Tg1, sappiamo bene che Dag e gli altri non sono narrazione della realtà, ma la realtà. E qualcuno, accanto a me, non può fare a meno di chiedersi, sussurrando sgomento: “Ma è proprio lui?”. L’insulsaggine menzognera della realtà narrata dai media ufficiali è svelata, il cortocircuito compiuto. Ed è senz’altro questo il merito più grande da assegnare a Dag e al suo splendido film.

Il titolo è “Come un uomo sulla terra”. Il perché lo spiega lo stesso Dag. “Uomo sulla terra, dopo quello che mi era capitato, non sentivo più di esserlo. Girando il film, sono tornato a sentirmi di nuovo tale”. Difficile non richiamare alla mente il “Se questo è un uomo” di Levi. Il parallelo è senz’altro autorizzato.

Dag e gli altri immigrati che, dopo un viaggio allucinante e costosissimo, dall’Etiopia (ma potrebbe essere da qualunque altra parte dell’Africa) arrivano sulla costa della Libia nella speranza di poter partire per l’Italia; che lì vengono arrestati con procedimenti sommari dalle autorità libiche; che vengono fatti viaggiare nel deserto a gruppi di cento ammassati a bordo di container roventi, senza cibo né acqua, tra il loro piscio e la loro merda; che al confine tra Libia e Sudan vengono scagliati nell’inferno del centro di detenzione di Kufrah, nelle medesime condizioni in cui hanno viaggiato per arrivarci, senza sapere quando usciranno e se usciranno da lì; che a un certo punto vengono “liberati” e per 30 denari consegnati dagli stessi che li avevano arrestati a intermediari che li riporteranno sulla costa libica dietro una nuova richiesta di pagamento; che sulla costa libica corrono di nuovo il rischio di essere arrestati e di ripetere lo stesso infernale tragitto quattro, cinque, sei, sette volte. Dag e gli altri immigrati che passano tutto questo sono gli odierni ebrei di Auschwitz: non-più-uomini.

Per guardare il film di Dag, che racconta quest’odissea, ci vuole coraggio. E non perché si vedano immagini di per sé forti. Dag si limita a inquadrare, con primi piani molto stretti, gli altri immigrati mentre raccontano la loro vicenda. Sono le loro parole, abbinate ai loro sguardi, a fare male. È il dolore inflitto dalla verità. Quella verità che i professionisti dell’informazione, da Vespa in giù, non raccontano. Mai.

Il dolore, poi, si trasforma in rabbia quando Dag, con una scelta registica semplice ma efficace, affianca ai volti dei suoi intervistati le scritte in sovrimpressione che ricordano allo spettatore come l’azione repressiva libica sia stata e sia tuttora finanziata dai governi italiani degli ultimi anni (non solo quelli di centrodestra), in cambio delle forniture energetiche libiche.

E a quel punto, dopo la rabbia, subentra la colpa. Guardando quei volti e leggendo quelle scritte, lo spettatore non può non sentirsi anch’egli colpevole, perché adesso sa che quegli sguardi alienati da “non-più-uomini” sono l’effetto collaterale del modello, energivoro ed egoista, di vita all’occidentale. Il suo modello. La sua vita.

P.S. Il film non ha avuto una distribuzione ufficiale, e potete stare certi che non lo vedrete mai in prima serata televisiva. Per proiezioni del film e altre informazioni, visitate il sito comeunuomosullaterra.blogspot.com.

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