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Candido

L’ottimismo terremotato

Giunto sul luogo della catastrofe che ha distrutto la città, un uomo osserva le macerie, tira un fischio ed esclama: “Ci sarà qualcosa da guadagnare qui”. Non appena riesce nel suo intento, si dà ai bagordi e “compera i favori della prima ragazza di buona volontà che gli vien fatto d’incontrare”. Avete capito: è la trama del dopo-terremoto abruzzese, lo sciacallo è “uno della cricca”. Invece no. Voltaire scrisse il “Candido, ovvero l’ottimismo” nel 1759, quattro anni dopo il terremoto che devastò Lisbona, Algeri e spinse uno tsunami fino all’Irlanda: l’amore per gli anniversari decimali, tondi ha spinto il regista Tonino Conte a mettere in scena l’opera di Voltaire per i 250 anni dalla pubblicazione. Il terremoto dell’Aquila e la “cricca” sono venuti dopo tale decisione, par di capire. Infatti la scena raccontata qui all’inizio, nello spettacolo che abbiamo visto... non c’è. Probabilmente si è trattato solo di una questione numerica: 8 attori non possono fare tutto. Anche se all’inizio parlavano le marionette... Il fatto è che a Conte e al suo poliedrico cast da sempre piace mettere al centro del proprio lavoro, cito dal dépliant di sala, “non l’attore, non il testo, non la regia e nemmeno la scenografia, ma tutti questi elementi in concerto tra loro, dando così forma ad un ‘sogno al cubo’ in cui la fantasia dello spettatore trova stimolo per sempre nuove avventure”. Montesquieu, un altro francese - piuttosto: un marziano, per il tempo in cui visse - disse che di solito a un’opera originale ne seguono sempre 5-600 da essa ispirate; estendendo questa nozione, ricongiungendola a quanto affermano i nostri genovesi, la lettura di un testo, avvenga essa in poltrona o, senza libro, a teatro, può/deve servire a stimolare la lettura e la scrittura di altre 5-600 opere. Difficile, in Italia, dove - ultima statistica - 4 su 100 leggono un libro all’anno...

Cosicché il viaggio di Candido alla ricerca del migliore dei luoghi possibili, dall’Europa all’America e ritorno, è metafora di una ricerca del proprio luogo, precisamente del posto in cui decidere di coltivare il proprio orticello, contribuendo a costruire il benessere sociale col lavoro, senza credere a miti come l’Eldorado o alla propaganda di chi un piatto di minestra ce l’ha già (come il filosofo leibiniziano Pangloss, precettore del giovane Candido).

Le peripezie dell’eroe volteriano (lo stralunato Pietro Fabbri), che perde, incontra, riperde e reincontra l’amata Cunegonda (Silvia Bottini), lo stesso Pangloss (Bruno Cereseto), il fedele servo Cacambò (Claudio del Toro), la Vecchia-senza-una-chiappa (l’esilarante Sara Nomellini) ed altri bizzarri naufraghi della felicità, sono narrate in scena dallo stesso Voltaire (un sapido Enrico Campanati), che dapprima introduce il preambolo della cacciata di Candido dall’Eden westfaliano (il migliore dei mondi possibili, fino a quel momento, secondo Pangloss), rappresentato a vista tramite marionette doppiate dagli stessi attori; poi, di tanto in tanto, prende la parola per raccordare i diversi scenari in cui l’eroe e i suoi diversi compagni di viaggio si trovano a filosofare della felicità possibile in questo mondo. L’anticlericalismo volteriano viene sciorinato con molta grazia e non manca un siparietto meta-teatrale, in cui Candido - dietro una barca di cartone che cammina con i piedi suoi e di altri due attori - enuncia una piccola apologia del teatro e dei suoi strumenti, che richiedono la cooperazione immaginativa dello spettatore, a differenza del cinema, in cui la ricerca della verosimiglianza è l’obiettivo primario. Nelle scenografie, nelle marionette, nei pupi giganti che minacciosi attorniano Candido, nel millimetrico garbo recitativo, nella regia rigorosa ma lieve, ritroviamo non solo la mano di Tonino Conte, ma anche lo sguardo ironico e fiabesco del mai troppo compianto Lele Luzzati.

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