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L’uomo che verrà

Guerra in montagna

Cos’è questa guerra nel cuore della natura? È la prima riga di dialogo de La sottile linea rossa di Terrence Malick, probabilmente il più bel war-movie della storia del cinema. In quel caso la natura che doveva sopportare, senza colpa, il peso della guerra, era quella di un’isola del Pacifico. Giorgio Diritti, con il suo L’uomo che verrà, sembra porsi una domanda equivalente. Sostituisce però la parola “natura” con “mondo contadino”: cos’è questa guerra nel cuore del mondo contadino? Siamo sugli Appennini, a Monte Sole. La guerra è la stessa, la Seconda Guerra Mondiale, tutta maiuscola, mentre mondo contadino si scrive minuscolo. La Guerra è un cataclisma troppo grande, davvero incomprensibile in un luogo dove si risolve a stento il problema della sopravvivenza, dove le stagioni seguono il loro corso sempre uguale e la Storia è ciclica, non lineare.

Un esercito, tra quelle case, inizia una guerra nella guerra contro i ribelli. Decidere la parte con cui schierarsi non è nemmeno tanto una decisione politica. È uno stare dalla parte dei nostri, con i ragazzi che vanno nel bosco, contro l’assurda presenza di militari venuti da lontano, incattiviti dall’ideologia e dalla divisa. La strage si abbatte così su un mondo che non solo non la merita, ma neppure era in grado di immaginarla.

I modi con cui il regista trasmette questa vicinanza verso i vinti provengono dal suo film precedente, Il vento fa il suo giro, in cui già dimostrava grande abilità antropologica nella descrizione di una comunità montana nel Piemonte. Per L’uomo che verrà il compito era più difficile: non si trattava solo di liberare uno sguardo etnografico, ma anche di far tornare un’epoca e renderne vivo il popolo. La scelta di recitare nel bolognese antico è solo uno degli indici di una volontà assoluta di rimanere fedele al principio di verosimiglianza.

Anche se le sequenze della strage vera e propria e il finale sono venati di qualche elemento retorico che poteva essere evitato, L’uomo che verrà mostra una rappresentazione degli anni della guerra e della resistenza paragonabile ad alcuni dei migliori testi che ce li hanno raccontati. Il film si può degnamente collocare, all’interno di un ipotetico scaffale multimediale, a fianco ai racconti quotidiani e barocchi di Beppe Fenoglio e all’anti-eroismo di Luigi Meneghello: “Ai piedi della collina e su in costa ci sono cascine isolate, agricoltori e contadini, alcuni più prosperi, altri più poveri, tutti amici nostri; per loro la vita continua più o meno come sempre, è uno schema che dura da secoli, salvo che ora c’è la guerra, in questi ultimi anni; e ora, negli ultimi mesi, ci sono inoltre, qui intorno, questi ragazzi partigiani. Le donne cucinano spesso qualcosa anche per noi, le famiglie ci ricevono liberamente in casa. Alla festa ci mandano un fiasco di vino” (I piccoli maestri).

Il titolo, L’uomo che verrà, apre una prospettiva sull’oggi: sullo spazio che ci separa dal Male ma anche da quel mondo estinto e dalla sua lingua perduta.

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