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Sguardi

Quando anche gli ultimi spiccioli dell’inverno si dissolvevano permettendo all’erba di crescere, il passatempo della ricreazione era cercare quadrifogli nel cortile. C’era stata una selezione naturale, fino a rimanere in tre, quattro, le migliori. Ci voleva colpo d’occhio rapido e preciso, perché alcune bambine non ne vedevano uno neanche a indicarglielo. È la stessa abilità che ci vuole a trovar funghi! La maestra, a mano a mano che glieli mostravamo, aveva coniato per noi parole nuove. Cinquefoglio, sei, sette... fino ad arrivare a un unico rarissimo ottofoglio. Il mio. Una bambina che trova un ottofoglio sembrava destinata a gran fortuna nella vita. Speranza che non mi ha abbandonato per molti anni, facendomi rimanere in attesa di un meglio che non arrivava. L’occhio da quadrifoglio mi rimase per anni. Bastava un ciuffo d’erba o un angolo di prato e i miei occhi, rapidissimi e come ipnotizzati, cominciavano la ricerca. L’estate che aspettavo la bambina ed ero in vacanza a Lagolo, la passeggiata lungo il lago era molto rilassante. Dove posavo gli occhi, vedevo una moltitudine di quadrifogli. E non se ne possono fare mazzetti, ma solo seccare tra le pagine di un libro. Ne trovavo troppi e la cosa mi provocava una sottile inquietudine. Sembravano forieri di sventura, tanto che decisi di non cercarne più. Ho poi letto che l’origine della leggenda del quadrifoglio è introvabile, ma sembra risalire agli antichi Druidi celtici, che riconoscevano al numero quattro delle foglie un potere magico. Ogni foglia un potere diverso: speranza, fede, amore e... fortuna. Ma solo se si evita di coglierlo e si lascia rimanere tra l’erba. Insomma, mi ero procurata iella da sola!

L’unica sicurezza che mi portavo dall’infanzia era che avevo gli occhi vispi. Erano il solo apprezzamento che filtrava dalla mentalità dei tempi, che non concedeva soddisfazioni o riconoscimenti alla prole. Mai dire a un figlio che era bravo a scuola o che aveva un bel carattere perché lo si viziava e rovinava per sempre. Se la mia pagella era bella, non facevo altro che il mio dovere. Se ricevevo nove in un compito, dovevo impegnarmi di più per prendere dieci. Se qualcuno mi diceva che ero una bella ragazzina, subito veniva zittito con espressioni come: “Non occorre dirglielo, si dà già abbastanza arie!” Macché arie, ero piena di fragilità e complessi. Infatti, sono arrivata all’adolescenza con l’unica certezza che la mamma mi sgridava sempre. Non le andava bene niente di me. Anche la sicurezza sugli occhi andò in crisi. Sì, perché non erano azzurri. E per me, quelli belli potevano avere solo quel colore. Irraggiungibile. Infatti, quando mi dicevano che avevo begli occhi, lo interpretavo come il complimento che si fa a una racchia che di bello ha solo quello. A dimostrazione che nessuna parte del mio corpo mi piaceva e non sapendo che avrei superato gli anta prima di accettarmi così com’ero. Post diagnosi di malattia incurabile. Sì, perché da creatura inquieta, pervasa da eterna insoddisfazione, mi accorgevo del valore di quello che ho/avevo, solo nel momento in cui l’avevo perduto per sempre. L’infanzia dei miei figli quando erano già adolescenti scalpitanti. La salute quando era perduta. La bellezza quando stava sfiorendo. L’enorme importanza dei genitori quando ormai papà non c’era più.

Pur avendo la vista perfetta, la malattia, che può colpire anche il nervo ottico, mi ha causato una diplopia. E vedere doppio se all’inizio è quasi divertente, poi diventa angosciante. Per fortuna si è bloccata con un bolo di cortisone e un po’ di pazienza, ma mi hanno prescritto i miei primi occhiali da lettura. Occhiali che regolarmente dimentico e lascio ovunque meno che sul naso. Nauseata dalle troppe visite neurologiche, dove controllano anche il funzionamento del nervo ottico, evitavo l’oculista da cinque anni. Pensando che faticare a vedere nitido da vicino fosse conseguenza irrecuperabile di degenerazione. Sì, perché questa malattia comporta momenti di sconforto. “Lei” ti possiede e va avanti comunque, fregandosene di cosa ne pensi o vorresti. Psicologicamente cominci a prepararti al peggio. A rassegnarti. A quando non sarai capace di usare più le mani, o di leggere, di parlare. In certi momenti ci si pensa anche troppo. Dal periodo scuro che stavo passando sono risalita proprio cambiando la solita lettura. Ma non in senso metaforico!

Inforcati i nuovi occhiali, ho provato l’ebbrezza di ritrovare qualcosa che credevo perduto per sempre. Di riaprire l’elenco telefonico senza usare la lente d’ingrandimento. Di scoprire tardi che il segreto della mia fortuna non doveva arrivare, era quello che già possedevo. Il peso di mille anni di battaglia è diventato più lieve. Da vecchia sono tornata bambina. La donna mutilata da una granata si è messa a ridere e ballare. La ragazzina lascia rimanere i quadrifogli nel prato.

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Commenti (3)

Friz

mi piace la descrizione della "creatura inquieta" così come della sensazione di "eterna insoddisfazione".
amarsi per la propria grandezza, sembra una parola, ma ...

ioriatti

Grazie del commento partecipe, Carlo. E' proprio vero. Nessuno più di noi può capire il valore della salute. Come basti un niente per perderla e trovarsi quindi a vivere con barriere fuori e spesso anche dentro.
I politici... tra tutte le sedie che si affannano ad occupare sarebbe da augurare qualche mese su quella a rotelle!

Carlo

ciao Nadia, ottimo articolo... come sempre... sai raccontare la tua vita, le tue esperienze con un certo senso di nostalgia-allegria...

È proprio vero: si riescono ad apprezzare le cose solo nel momento nel quale si sono perse. Chiedete A chi può salire le scale senza problemi... La riterrà una cosa normale? se però sarà costretto a stare in carrozzina o con una gamba ingessata per qualche tempo si accorgerà di quanto era fortunato.

Un'esperienza che dovrebbero fare tutti quei politici e quelle persone che legiferano e sono tenute a controllare il rispetto delle barriere architettoniche... perché, come per i tuoi nuovi occhiali, basta un po' di accessibilità, uno strumento utile, per farci tornare più autonomi ed apprezzare meglio quello che ci resta!.

Ciao. Carlo Nichelatti
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