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QT n. 8, settembre 2010 Monitor: Danza

Oriente Occidente 2010, dall’espressione all’astrazione

Dall’espressione all’astrazione

Alwin Nikolais

Tempo di anniversari e di bilanci per Oriente Occidente, che sceglie di festeggiare il trentennale con una scelta di nomi e coreografie emblematiche per comprendere l’aspirazione del Festival ad ergersi come ponte tra generi e culture differenti. Dell’articolato programma possiamo restituire solo un rapido assaggio, sottolineando come già dalle prime coreografie traspaia l’intento di voler mettere a confronto stili di danza che stanno agli antipodi dell’universo coreutico internazionale: dall’espressionismo vibrante del tango argentino all’immobilità austera del Butoh giapponese, passando per l’astrazione multimediale di uno dei maestri della post-modern dance americana. Tre mondi diversissimi che trovano comunque lo spazio per convivere sotto l’eterogenea etichetta di “danza contemporanea”.
Si comincia con il tango, ballo che negli ultimi anni sta godendo di un sempre crescente favore del pubblico - forse a scapito dell’ormai abusato flamenco, passato un po’ di moda -, che ne ha decretato l’ascesa dai bassifondi di Buenos Aires fin sui palcoscenici europei.
Della Tetralogia presentata a Rovereto da Leonardo Cuello convincono soprattutto i pezzi dove il tango travalica i confini del puro revival per fondersi con la danza contemporanea in un sapiente e pulito assemblaggio di mosse ed intenti. Dall’espressionismo appassionato e sensuale del ballo argentino si scivola nella purezza ascetica del Butoh (letteralmente Danza delle tenebre), movimento nato in Giappone alla fine degli anni Cinquanta come risposta alla devastazione di Hiroshima. Su di un fondale privo di qualsiasi connotazione reale -una sorta di tabula rasa post esplosione atomica si muovono le sagome di sei danzatori, trasformati dalla biacca che ricopre i loro corpi in figure evanescenti e spettrali, i cui pochi gesti si caricano di significati reconditi. La luce diafana, il silenzio e l’estenuante lentezza delle movenze, alternata a improvvise cadute e brevi corse frenetiche, contribuiscono ad aumentare l’effetto ipnotico della performance, che trascina lo spettatore nei luminosi abissi di un universo parallelo, dominato dall’impercettibile fluire e rigenerarsi delle stagioni.
Dall’astrazione metafisica del Butoh a quella colorata e irriverente di Alwin Nikolais il passo è tutt’altro che breve: pur se generati dalla stessa temperie culturale post-bellica, i due stili hanno in comune solo il fatto di voler trascendere il dato naturale per riportare l’attenzione sulla forma e la qualità del movimento. “Motion, not emotion!”, così Nik ammoniva i suoi danzatori, avvolgendone i corpi con prolungamenti e suppellettili in grado di trasfigurarli e trasportarli in una dimensione scenica collettiva e altamente suggestiva. Pur se in alcuni casi alquanto datate, le creazioni di Nikolais sprigionano ancora oggi la loro magia fatta di luci, colori, suoni e costumi bizzarri. L’apertura del sipario proietta lo spettatore in una galassia animata da personaggi stralunati, il cui visionario creatore sembra ancora muovere silenziosamente i fili da dietro le quinte. Nikolais, che nel 2010 avrebbe compiuto cent’anni, iniziò la sua carriera come burattinaio e non smise mai di lasciarsi affascinare dall’immaginario infantile come ben dimostra The Crystal and the Spere, sua penultima coreografia, presentata in prima nazionale al Festival. Grazie a questo “intermezzo” il pubblico di Oriente Occidente per un’ora è tornato bambino, nella speranza che un po’ di colore e qualche risata in più tornino a rallegrare le atmosfere spesso un po’ troppo tese e monocrome della scena contemporanea.