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QT n. 17, 16 ottobre 2004 Servizi

Se il mio partito saluta Mosca...

Lo sfogo di un giovane comunista di Rovereto

Non tutto è tranquillo nel PCI dopo le recenti prese di posizione del Comitato centrale a proposito dell’URSS e della Polonia. Rispetto a quelle indicazioni non c’è affatto l’unanimità, anzi sono molti i militanti che assistono in silenzio, ma sostanzialmente dubbiosi, alla svolta del partito.

Questo fenomeno è presente a livello nazionale, ovvio quindi che anche nella nostra provincia siano emerse, e in certi casi con rudezza, posizioni diverse da quelle espresse dal vertice, e non tanto - si badi bene - rispetto alla valutazione sull’Unione Sovietica, quanto rispetto ai problemi che pone questa nuova, brusca, virata di rotta.

Ne abbiamo parlato con un giovane comunista, presente nel sindacato, che ha preferito mantenere l’anonimato. Perché? Perché non è poi così pacifico che chi la pensa diversamente non debba poi subire antipatiche conseguenze.

Entriamo subito nel merito. Il documento approvato dal Comitato centrale sostiene che l’URSS ha esaurito la sua spinta positiva, altri (solo Cossutta in quell’organismo, ma molti di più a livello di base) affermano che è un’analisi superficiale e frettolosa. Qual è la tua opinione?

"E’ cambiata la qualità delle critiche nei confronti della Russia; i comunisti italiani avevano già avuto occasione di dissentire rispetto alle decisioni dell’URSS, ma oggi quello che mi lascia dubbioso, e assieme a me tanti compagni, perchè sono proprio molti, è il non capire che conseguenze avrà quell’analisi per la politica del partito in Italia. E’ questo il punto, non esiste un dibattito pro o contro l’Unione Sovietica".

Vediamo di essere più precisi: c’è chi ha salutato il documento comunista come il preludio ad una nuova Godesberg (la località tedesca dove la socialdemocrazia di Brandt abbandonò ufficialmente il marxismo, n.d.r.) e lo considera il primo passo verso il rifiuto di ogni progetto rivoluzionario. Cosa pensi di questa ipotesi?

"Secondo me è questo il nodo della discussione; e invece di parlare della Russia, parliamo del documento economico del partito. In questo momento è in discussione, perchè non è un dogma, ma su Rinascita c’è già chi ha detto che non è nemmeno un progetto keynesiano. Ci ricordiamo molto bene che fine ha fatto il progetto a medio termine; ci ricordiamo i salti che in politica interna ha fatto il PCI: nel ’73 esce Berlinguer con la sua linea sul compromesso storico che il partito non ha mai digerito; poi abbiamo dovuto aspettare il terremoto per dire che la DC non è un partner di governo, infine abbiamo aspettato i fatti di Polonia per dire che là non funziona più nulla, e un dirigente come Macaluso afferma che lui la pensava così dal 1956. A mio avviso questi cambiamenti di indirizzo bruschi sono inaccettabili.

E il problema non è quello della scissione (l’errore dei sovietici è stato quello di augurarsela), ma quello di un’acutissima insoddisfazione di molti compagni. In sostanzia siamo in parecchi a pensare che questa nuova linea ci porti non tanto al governo ma ad abbandonare la lotta di classe e il concetto dell’egemonia operaia".

I militanti come si sono comportati durante i dibattiti organizzati sul documento del Comitato centrale?

"Ci sono tre fasce, a mio avviso. Una è quella dei quadri e funzionari che è schierata con il vertice: ma loro sono sempre schierati con la linea del partito). Un’altra di compagni non etichettabili che sentono ancora il mito dell’URSS, e una terza fascia che pone questioni ma non ottiene risposte ed è etichettata come kabulista. Alcuni compagni, ed è un pericolo reale, hanno rifiutato la tessera e lo hanno fatto perché vogliono un chiarimento politico, nel partito, che finora non c’è stato".

Come mai?

"Il gruppo dirigente crede in questa impostazione politica e non è molto disponibile a tornare indietro".

Dunque la preoccupazione di molti iscritti è che la nuova linea voglia dire che bisogna tenersi il capitalismo, anche se riveduto. Da quale analisi trai questa conclusione?

"Da due motivazioni, una politica ed una sentimentale, diciamo così. Partiamo da quest’ultima. I comunisti si sentono ancora quelli che muoiono per la libertà, e socialdemocrazia vuol dire rinunciare a questo patrimonio. A livello politico, poi, abbiamo sempre detto che il capitalismo deve essere superato perché provoca storture e ingiustizie, e ora dall’Unità, dal documento economico, dalla stessa relazione di Ferrandi (al congresso regionale del PCI) che citava una sola volta l’espressione ‘classe operaia’, dal fatto che il partito non dica una sola parola sulla ristrutturazione capitalistica traggo la conclusione che manca una linea politica e che quella che stiamo praticando non è di aggregazione sulla base di un nostro programma, ma di inseguimento di quello degli altri. Un partito comunista non dovrebbe far politica in questo modo".

9 febbraio 1982

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