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QT n. 3, 7 febbraio 1998 Scheda

Quei grigi, duri anni Cinquanta

Avevamo contro tutti: la Confindustria, il governo, le madonne pellegrine piangenti e il fantasma di Masarik, defenestrato a Praga". Così ricordava il clima in cui viveva la CGIL (e la sinistra italiana) dopo il 1948 e la rottura dell'unità sindacale, Fernando Santi, uno dei grandi dirigenti socialisti della nostra confederazione.

Nel Trentino, oltre a questo, soprattutto nelle valli, c'era anche l'antica diffidenza verso tutto quello che esprimeva idee difformi da una tradizione e da un potere consolidato nei secoli.

"I nostri fischi" aveva titolato Cesare Battisti un "numero unico" per la cronaca dei primi, osteggiati passi della propaganda sindacale e socialista nelle valli trentine. Le campane di Pergine e Levico suonarono infatti ininterrottamente per pomeriggi interi, nell'agosto 1896, per coprire le parole del comizio battistiano.

"I silenzi Che ci circondano " - avrebbero potuto titolare, cinquant'anni dopo, i bollettini della CGIL, per ricordare il vuoto che veniva organizzato attorno alle iniziative dei nostri sindacalisti nelle piazze dei paesi trentini, sui cantieri delle nostre valli.

Piazze vuote e gente che ascoltava a persiane chiuse accoglievano infatti i sindacalisti per i comizi del primo maggio. Ma essi non si stancavano di spiegare, anche nei più sperduti villaggi, che il sindacato (e il socialismo: difficile anche nel lessico, allora, distinguere l'azione rivendicativa dall'azione polìtica) era come "il filo di polenta". Serviva per distribuire i redditi in parti eque fra chi aveva molto e chi non aveva nulla.

C'era tanta gente nelle nostre valli che allora non aveva nulla e che per lavorare, persino per emigrare, aveva bisogno dell'intervento del parroco, del notabile democristiano, del personaggio influente, che di solito erano onesti e generosi, ma mai erano di sinistra. Distribuire la propaganda del sindacato, raccogliere i pochi soldi per "i bollini" della CGIL significava dichiararsi esplicitamente dall'altra parte. Occorreva per questo un forte senso di militanza, che non era evidentemente di molti. Dal pulpito, spesso, soprattutto in prossimità di consultazioni elettorali, era scagliato l'anatema di "figli dette tenebre ". Eppure quasi tutti volevano conciliare l'impegno del sindacato e del partito con il rispetto della religione e dei suoi ministri. Non ovunque era così, ma questo era il clima prevalente che si respirava nel nostro profondo nord. Lontani da Portella della Ginestra, ma protagonisti di quel mondo di società separate che era il mondo della guerra fredda, in Italia segnato anche da un durissimo contrasto sociale.

Un grande ministro laburista inglese di quel tempo, Aneurin Bevin, a chi gli chiedeva come conciliava la sua presenza in un governo che aveva rotto con l'URSS senza rompere anche con Nenni, alleato dei comunisti in Italia, rispose: "Le condizioni sociali in quel paese sono tali che, se fossi là, non potrei fare cosa diversa da Nenni". Alla luce della storia successiva, questa risposta può apparire forse troppo semplice, ma da un senso al sacrificio, alla resistenza di tanti e tanti uomini del sindacato e del movimento operaio che fecero una scelta dì classe non solo perché abbacinati dal mito dell'URSS, ma perché calati nelle condizioni di pura sopravvivenza di tanta parte del proletariato italiano.

Sembra un passato remoto, lontanissimo. Eppure riemergono ancora dagli scantinati di qualche vecchio compagno i ritagli delle pubblicazioni del sindacato con gli operai uccisi negli scioperi di Modena o nelle lontane terre del Sud, immagini di lotta, di repressione, di dolore, ma poi anche di ordine, di forza e consapevolezza non piegata.

Erano pubblicazioni che circolavano di mano in mano, da un compagno all'altro, di cantiere in cantiere, macchiate di qualche goccia di sudore, rese ruvide dalla polvere di cemento depositata su quelle pagine di storie drammatiche. Il sindacalista che dormiva nella cucina dei compagni su un pagliericcio di foglie di granoturco, che s'alzava presto il mattino per incontrare gli operai prima dell'inizio del turno non è un'immagine retorica, un ricordo strappalacrime.

Per anni la CGIL è vissuta così: di tenacia, di impegno, di sacrifici senza orario. E' stato in questo modo che in ogni angolo del Trentino è arrivata anche l'altra parte di una ragione, o se vogliamo l'altra parte di una storia, che ha consentito alla nostra terra di non avere mai una vita civile monocorde.

Si era certo minoritari, ma parte consapevole dei fermenti e delle lotte che avvenivano in Italia, in Europa, nel mondo. E quando al paese per pochi giorni, d'estate o più spesso a Natale, tornava qualche minatore emigrato in Belgio, o qualche muratore di Francia, allora si sentiva che la lingua comune del sindacato europeo era scritta nelle esperienze e nelle lotte, prima ancora che nelle sigle che restavano e sarebbero rimaste ancora a lungo divise.

Non è solo per la religione civile del ricordo, per doveroso senso di gratitudine ai nostri padri, che ricostruendo la storia della CGIL ricordiamo e rivendichiamo anche quegli anni, accanto a quelli più ricchi di risultati e meno carichi di sacrifici, di tempi a noi più vicini. E' anche perché sentiamo il dovere di riempire un vuoto della storia sociale del Trentino, quasi una rimozione collettiva di un periodo duro e amaro della vicenda civile della nostra terra, che non può essere letto solo attraverso il succedersi di uomini dello stesso colore alla guida degli istituti della nostra autonomia.

Il Trentino ha superato un'economia di pura sussistenza per larga parte della sua popolazione. Se il lavoro è assicurato, un benessere diffuso oggi è presente anche nelle famiglie di tradizione operaia, ebbene, questo è anche merito di quella lotta per i diritti civili e sindacali che, anche in Trentino, hanno saputo fare migliaia di iscritti alla CGIL in quei grigi, duri anni Cinquanta.