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Diritto all’oblio: sì o no?

La notizia, vera ma sgradita, dopo anni è sempre lì su Internet. È giusto chiederne la rimozione? Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Guido Scorza

Tradizionalmente quando si parla di diritto all’oblio, si intende il diritto a che nessuno riproponga nel presente un episodio che riguarda la nostra vita passata. In realtà ci sono due diritti all’oblio. Il primo è quello tradizionale, sul quale abbiamo già una giurisprudenza. Per fare un esempio: se un regista decide di fare un film su un ex-terrorista, che magari ha espiato la sua condanna e si è rifatto una vita, riportando nell’attualità una vicenda sepolta nella memoria dei più, ha dei limiti imposti dal diritto. Ma quando si parla di diritto all’oblio in Rete non si parla più del diritto di ciascuno a che altri non ripropongano fatti del passato, ma si discute della circostanza che ognuno avrebbe il diritto a riprendersi, diciamo così, dei tasselli della propria storia che sono pubblicati on line. Dunque, il diritto a chiedere di togliere da Internet un’informazione pubblicata tempo prima.

Non si chiede di vietare a qualcuno di riproporre una storia del passato, ma piuttosto di “disindicizzare” dall’archivio storico di un giornale, o dagli stessi motori di ricerca, un contenuto che riguarda il passato di un singolo. È di pochi giorni fa la vicenda, pubblicata sul Corriere della sera, di un ex brigatista rosso, pentito, e oggi professore di Economia, che lamenta la presenza in Rete di una serie di informazioni che lo riguardano e che gli creano problemi nella sua vita attuale. Basta mettere nome e cognome su Google e, oltre alle informazioni accademiche, esce l’articolo che parla di lui come terrorista.

Questa cosa mi piace poco, perché stiamo parlando di rimuovere dallo spazio pubblico un’informazione reale, veritiera e corretta, che quando è stata pubblicata era di sicuro interesse di cronaca e di sicuro interesse pubblico.

E il tutto in nome dell’interesse del singolo. Per questo io aggiungo sempre un tassello: attenzione al diritto alla storia. Perché la nostra storia ce la racconteranno, ce la racconteremo, su Internet, o comunque in digitale. Ecco, se facessimo passare questo principio che ciascuno di noi può riprendersi tutte le informazioni che lo riguardano pubblicate da terzi, fra quindici anni, quando qualcuno volesse ripercorrere la storia degli anni Duemila attraverso l’informazione on line, probabilmente trarrebbe l’errata conclusione che la nostra è stata un’età felice vissuta da gente per bene. È ovvio, infatti, che, potendo, ciascuno andrà a togliere quello che non gli piace, in modo da avere la migliore reputazione on line possibile. Per questo, al diritto all’oblio, io contrappongo sempre il diritto alla storia.

Un problema di educazione al digitale

Va allora trovato un punto di contemperamento tra il diritto del singolo, classificato come diritto alla privacy o all’identità personale, il diritto della collettività che è diritto all’informazione in senso generico - nella misura in cui si tratta di informazione rilevante - e, infine, il diritto alla storia in senso più specifico.

Secondo me c’è un problema di educazione al digitale, in termini di acquisizione di un’attitudine a convivere in un contesto tecnologico diverso rispetto a quello a cui eravamo abituati. Nessuno ha mai pensato di chiedere a qualcun altro di cancellare dalla sua memoria qualcosa che aveva sentito sul suo conto. L’esempio dell’ex terrorista che facevamo prima è eclatante da questo punto di vista, nel senso che esistono decine di libri sugli anni di piombo con dentro i nomi di questa persona e di altri che hanno vissuto quell’epoca. Questi testi sono nelle librerie, chiunque può leggerli e a nessuno verrebbe in mente di gettare al rogo questi testi in nome della tutela del singolo. Quando invece si passa da una dimensione ampia, come quella della letteratura, ad una amplissima, come è Internet, si rivendica il diritto a far pulizia. Dovremo abituarci a convivere con il nostro passato, mediato attraverso il web. Possiamo farlo accettando che oggi esiste uno strumento di supporto alla memoria collettiva. D’altra parte i libri e gli archivi esistono da secoli. Ecco, oggi c’è anche Internet.

Se per assurdo, tra una decina d’anni, acquistassimo una capacità di memoria tale da non aver bisogno del supporto di un calcolatore, nessuno si sognerebbe di rivendicare il diritto ad indurre altri all’amnesia. Alla fine, che differenza c’è tra un’attitudine naturale alla memoria e un’attitudine alla memoria mediata dal Web? Secondo me nessuna. Ripeto, si tratta di imparare a convivere con tutto questo.

Faccio un esempio pratico: al tuo primo colloquio di lavoro viene fuori che su Facebook c’è una foto di quando avevi 16 anni steso ubriaco all’uscita di un pub. Ora, è evidente che un ipotetico datore di lavoro dovrebbe essere in grado di collocare nello spazio e nel tempo questo tipo di informazione, dandogli il peso che merita. Perché attraverso il Web, potrà accedere sì a quella foto, ma anche a tutta una serie di informazioni, si spera di tipo diverso, che si sono stratificate dai 16 anni fino al momento in questione, e che integrano la storia della persona.

In Germania era stata varata legge che vietava al datore di lavoro di utilizzare informazioni acquisite attraverso i social-network per determinare l’assunzione o meno di un dipendente. In realtà basterebbe imporre - cosa che è già presente nel codice della privacy - che qualunque tipo di decisione, pubblica o privata che sia, non venga mai assunta sulla base di un trattamento esclusivamente informatico delle informazioni. Non puoi decidere di assumermi o meno, di collaborare o meno con me, perché hai intercettato un tassello della mia identità digitale. Hai un obbligo, che ora è sociologico o morale, ma che in prospettiva potrebbe diventare giuridico, di guardare sempre all’identità nel suo complesso.

In merito, esiste al momento solo una proposta di direttiva europea e ci vorrà un po’ perché entri in vigore, forse nel 2014. Il provvedimento ha più obiettivi. Il primo è quello di disciplinare in maniera uniforme, e in tutta Europa, il trattamento sui dati personali. Questa esigenza si sposa con il carattere transnazionale di Internet che comporta una legislazione più omogenea. Oggi gli utenti di un forum su Internet che accedono da paesi diversi fanno riferimento a legislazioni diverse.

Ecco, la maggior parte delle disposizioni contenute nella direttiva non fanno altro che ripercorrere la disciplina sulla privacy già in vigore in tutti i Paesi dell’Ue, cercando, ove possibile, di uniformarle ovviando alle discrepanze. Le due linee guida per il momento sono quelle di porre l’utente, il titolare di dati personali, nella condizione di sapere sempre chi e per quale scopo tratta i dati che lo riguardano, garantendogli sempre la possibilità di modificarli.

Il trasloco impossibile

L’altro aspetto importante è il “data portability”, cioè la possibilità di portare con sé questi dati quando si passa da un qualsiasi fornitore di servizi a un altro. Per esempio: sono cresciuto per 5-6 anni su Facebook, ho trasferito lì una parte importante dei miei dati e della mia identità digitale ma, a un certo punto, per qualche ragione, decido che quello non è più il mio ambiente digitale di riferimento. Ecco, devo poter portare via da Facebook tutti i miei dati e trasferirli altrove. Ora Facebook permette all’utente di cancellare le proprie informazioni, ma non è la stessa cosa, perché rappresenta una perdita per l’utente e quindi una sorta di ricatto: infatti i più esitano a lasciare il fornitore. In relazione a questi aspetti, le proposte emerse in Europa sono assolutamente condivisibili.

C’è poi un solo articolo che riguarda il diritto all’oblio. Molto è stato detto in proposito, ma ancora non è chiaro quale sia l’obiettivo finale perseguito dal legislatore europeo. Per ora la proposta di direttiva dice che chiunque deve avere il diritto di chiedere la cancellazione dei dati personali che lo riguardano. C’è però una clausola di salvaguardia piuttosto importante che dice “salvo che la permanenza on line di quelle informazioni non sia giustificata sotto altro profilo, quale per esempio la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di cronaca”.

Si tratta insomma dell’affermazione di un principio generalissimo: posso chiedere la cancellazione dei miei dati personali a distanza di un certo periodo di di tempo, non ancora stabilito. Se questo principio fosse assoluto, varrebbero le considerazioni di cui sopra, ma in questo momento non lo è. Bisognerà vedere come quel “salvo che” verrà riempito di significato. Al momento la direttiva esprime più un dubbio, una necessità all’equilibrio tra istanze diverse. Vedremo come lo risolverà il legislatore europeo prima, e poi (dopo il 2014) come gli ordinamenti dei singoli Stati membri lo recepiranno.

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Guido Scorza è avvocato e dottore di ricerca in Informatica giuridica e Diritto delle nuove tecnologie.