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L’inevitabile suicidio

"Hedda Gabler”

Hedda Gabler è febbrile, seduttiva e consapevole del proprio fascino, incapace di subire l’equazione borghese tra femminilità e maternità ed altresì incapace di realizzare il suo desiderio di libertà. Vittima di un sistema sociale che nel privato si fa carnefice. Ossessionata dal controllo sui destini altrui in quanto deprivata del controllo sul proprio. Il regista Calenda spinge da subito il pubblico nel chiaroscuro della scena su cui si aggira Hedda col candelabro in mano ed altalena con magistrali passaggi di luci, cambi d’abito e di piani scenici definiti dal tulle grigio, tra la ragione e il tormento oscuro dell’inconscio. Inquietante il rituale rivelatore del male di vivere di Hedda: l’ossessione per il ritratto paterno a cui ella periodicamente torna per depositare mazzi di fiori bianchi. Impattante la scena del rogo del libro, il figlio simbolico dell’ex amato di Hedda, a cui ella associa la morte della sua stessa maternità. È un teatro della morte, in cui il suicidio è l’unica scelta esistenziale possibile; l’unica via per la libertà; l’unica forma di bellezza possibile. Lo sarà per Lovborg e per Hedda. L’eleganza della Mandracchia e la presenza scenica di Roman rendono veloci le quasi tre ore di spettacolo. Tutta la compagnia ben affiatata regge il ritmo di questo dramma al termine del quale i semplici, e solo loro, vivranno. Deplorabili le chiacchiere, i cellulari accesi e le pause caffè del pubblico, che in presenza di suoni, movimenti, parole o frasi poetiche, oggetti di scena inusuali, ha reagito da pubblico di sceneggiata, con esclamazioni e risate fuori luogo, mostrandosi incapace di entrare nel pathos. Un pubblico prezioso per le casse, ma decisamente sgradevole.

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