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Burocrazia: che fare?

Una pubblica amministrazione a rischio di collasso: le occasioni perse del passato e le sfide del futuro. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Marco Cammelli

La vulgata sull’amministrazione in Italia si incentra sull’eccesso di personale. Ma i numeri non sono esorbitanti, sia in relazione al numero di abitanti che di occupati: intendendo per pubbilca amministrazione Stato, sistema locale ed enti pubblici, i dipendenti pubblici in Italia sono 3.300.000, cifra in sé imponente, ma poco meno del 15% del totale degli occupati. Su 100 occupati 15 lavorano nella pubblica amministrazione.

La spesa corrente (quanto è assorbito per il personale e per oneri) e la spesa che l’amministrazione eroga assommano a più del 50% del Pil: la metà delle risorse disponibili in un anno passa per la pubblica amministrazione. Ma se facciamo riferimento ad altri paesi, l’Italia è ben allineata, anzi, abbastanza morigerata: nel decennio 2001-2010, rispetto alla popolazione residente, la burocrazia è scesa dal 6,4% al 5,8%, mentre in Germania, che è appena un po’ più virtuosa, è salita dal 5,3 al 5,4%; ma in Francia e Inghilterra, il rapporto supera il 9%. E il rapporto fra pubblici dipendenti e occupati in Italia è sceso in questo decennio dal 16,1% al 14,4, mentre nel Regno Unito è al 19,7% degli occupati, e in Francia addirittura al 22.

Dunque l’amministrazione, pur essendo importante per le risorse che veicola e il personale che ci lavora, non è in sé strabordante.

Eppure, dal 2004 al 2012, malgrado i tagli, la spesa è cresciuta a fronte di una diminuzione dei dipendenti. La spiegazione sta nel fatto che è cresciuta proporzionalmente la dirigenza rispetto al resto del personale: un segnale negativo, non solo per l’aumento di spesa, essendo la dirigenza meglio retribuita, ma perché i dirigenti non si accontentano di essere pagati e basta: finiscono per richiedere funzioni, e questa diventa una spinta alla creazione di nuove mansioni, e apparati.

L’altro aspetto negativo è che il taglio lineare del personale è stato straordinariamente differenziato, a dimostrazione del fatto che quando si usano questi strumenti o si è attenti o si è apprendisti stregoni e si combinano guai. I tagli lineari hanno comportato che in alcune amministrazioni la dirigenza è aumentata, altre sono andate in pari e la scuola ha perso il 10% del personale, e questo perché era quella con più precari.

Mai come ora l’effetto dei guai dell’amministrazione pesa sulla situazione italiana. Ma per capire cosa si può fare, bisogna capire quali sono questi guai e da dove vengono. Intanto abbiamo alle spalle una serie di occasioni perdute, le più importanti delle quali sono due: una è il regionalismo degli anni ‘70, quando le Regioni, che dovevano dar luogo a un’articolazione diversa del sistema amministrativo, vennero invece costruite in aggiunta a un sistema dato. Dopodiché ci fu un peso in più e non in meno.

La seconda occasione l’avemmo negli anni ‘90, quando dopo lo sconquasso di Mani Pulite e la svolta europeista, si avviò una riforma significativa dell’amministrazione (le famose leggi Bassanini, sostanzialmente dal ‘94 al ‘98-’99) che poi però, per disinteresse della politica, per sottovalutazione del problema, e per la crisi della politica, non ebbero seguito, e l’amministrazione non aspettava altro che essere lasciata in pace a covare i propri difetti, le proprie tradizioni. Così, mentre altri paesi si riattrezzavano, noi lasciavamo andare la barca abbandonata a se stessa. Se fossimo rimasti almeno allo stesso livello di problemi uno poteva dire: “Si è persa un’occasione, ma il problema rimane quello”. Eh no! Si è persa l’occasione, ma intanto la sfida dei problemi è cresciuta. Sicché il costo delle mancate innovazioni è diventato enorme.

Come funzionava

La prima delle nuove sfide è storica: per 100 anni, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, l’amministrazione era stata la punta avanzata che trainava la società: chi era in amministrazione era istruito, viaggiava perché aveva mezzi... Lo sviluppo degli anni ‘50 e ‘60 fa esplodere la società che, progressivamente, come istruzione, consumi, reddito, mobilità, sorpassa un’amministrazione che perde posizioni: non è più un luogo di temuto potere, ma un luogo un po’ malinconico, di lavoro marginale in sé e nella percezione socile. “Il maestro di Vigevano” è una rappresentazione magistrale di questo processo: l’industrialotto della Brianza contrapposto al maestro elementare, che ha cessato di essere un’autorità diventando un povero cristo, sottopagato e senza prestigio. La svolta è lì. Da allora l’amministrazione è sinonimo di arretratezza, mentre per lungo tempo era stato il contrario.

Seconda sfida: viene richiesta un’amministrzione più leggera, capace di far fare più che fare direttamente, capace, quindi, di interagire col contesto e non di gestire in proprio. Gli arsenali facevano pure i bottoni delle divise militari, l’amministrazione adesso se le compra, le cose. Questa leggerezza permette di evitare che gli alti costi di un’amministrazione che si espande in personale e strutture costringano a una pressione fiscale insostenibile per i cittadini.

La terza è l’inversione del rapporto pubblico-privato. Avevamo un sistema amministrativo da sempre fortemente connesso fra pubblico e privato; dall’industria di base che nasce con i grossi investimenti statali al sistema bancario, alle infrastrutture, fino ai casi più noti come la Fiat, tutti avevano un rapporto stretto con l’amministrazione. Quando col trattato di Maastricht introduciamo su tutto il sistema degli appalti, dei lavori, delle forniture e dei servizi della pubblica amministrazione, la dura legge della competizione fra imprese (fra l’altro, non solo italiane) rompiamo un meccanismo secolare di rapporti, di contiguità, che non erano tutti patologici.

Era un sistema fondato su scambi, di negoziazioni reciproche, di compensazioni (“Oggi a me, domani a te”), con una forma regolata ma morbida e malleabile di definizione delle relazioni. Fermo restando che se il funzionario si metteva i soldi in tasca era una cosa penale, si trattava di ricerca di equilibrio, di conoscenza del tessuto del territorio, di attenzione alle imprese in difficoltà. Tutto ciò viene spazzato via all’improvviso dalla regola della competizione, dove chi è più bravo vince: è come passare dall’italiano all’ostrogoto, una lingua ignota ai funzionari, alle imprese, all’opinione pubblica.

Intendiamoci, solo chi si è dimenticato che per avere la linea telefonica dalla vecchia Sip monopolista bisognava farsi raccomandare, può rimpiangere i sistemi “protetti”. Quindi viva la concorrenza, ma da questo a estendere a tutto, improvvisamente, regole sostanzialmente estranee alla mentalità di un paese, è stato uno shock che ha avuto l’esito, da una parte, di provocare una rissa continua col dilagare dei ricorsi al Tar e un contenzioso spaventoso, il che ha comportato blocchi su tutto, o, d’altra parte, di incentivare il ricorso a un livello più alto di negoziazione, ma stavolta diretta: la corruzione.

Aggiungo un quarto elemento che ha procurato un forte stress all’amministrazione, quello che, paradossalmente con le migliori intenzioni, è la miccia che fa saltare tutto: la trasparenza. A un’amministrazione rimasta ferma ai modelli tradizionali mentre tutto intorno cambiava, sono arrivati i nuovi diritti alla trasparenza. È stato come dare una sferzata di energia su un corpo decrepito. La trasparenza è un valore, ma devo avere l’accortezza di introdurla su un telaio che tenga. Si chiede di diversificare a un’amministrazione basata sull’uniformità, metto l’assunzione di responsabilità in un’amministrazione abituata a stare acquattata, metto la tutela della privacy, l’essere chiamata a rispondere dei danni... Infine, a tutto questo aggiungo la trasparenza.

Che fare?

La prima cosa da fare sarebbe spiegare all’Europa, ma anche agli italiani, il problema che abbiamo, e che per risolverlo ci metteremo vent’anni. Faremo ogni anno solo il 5%, il che vuol dire che in vent’anni si farà tutto. Ci vuole un patto sul da farsi con tutti quelli che sono rappresentati, con le forze sociali, perché questo tempo lungo deve essere sottratto alle oscillazioni di maggioranze e minoranze. Dopodiché, lo si imponga all’Europa, alla Ragioneria, alla Banca d’Italia, a tutti: quel treno deve partire e non deve più fermarsi.

In che consisterebbe questo patto? Quattro cose. Primo, la riforma del centro. Abbiamo un pesante centro amministrativo che non risponde alle esigenze. È uguale a se stesso da un secolo: non è cambiato quando Mussolini voleva spostare i ministeri a Salò, non è cambiato con la riforma regionale, non è cambiato con le privatizzazioni. È una massa opaca, pesante, costosa, incisiva sui processi decisionali, che non è cambiata di una virgola.

Occorrono strutture più snelle, le cosiddette amministrazioni di missione, più funzionali, più puntuali, che a seconda dei casi si montano e anche si smontano, perché non possiamo aggiungere a quel che c’è dell’altro, perché così non funzionerebbe né il vecchio né il nuovo.

Secondo: risolvere il problema dell’intelaiatura. Non c’è edificio che non abbia la sua intelaiatura di base, altrimenti non costruisco niente. Il nostro sistema amministrativo non ha scelto se essere unitario o plurimo, regionale o basato sull’amministrazione periferica dello Stato che interagisce coi sistemi locali. Bisogna scegliere uno di questi due modelli, rimanere a metà non funziona e si sprecano risorse.

Terzo: all’interno dell’amministrazione ci sono punti nevralgici, anzitutto la dirigenza, che non ha una formazione. Non siamo riusciti neanche ai tempi delle mitiche leggi Bassanini a fare un sistema unificato di formazione dei dirigenti, perché ogni ministero voleva la sua, e le Regioni non hanno fatto nulla in questo campo, mentre potevano essere un elemento chiave per la formazione del personale regionale e locale.

Infine, autonomia decisionale. Per fare questo bisogna che il potere politico prima dia le direttive e poi verifichi. Direttive e controlli, e su questo un dirigente è valutato e risponde. Ma se non ci sono le direttive, non si saprà neanche come valutare i risultati; allora il dirigente risponderà non per i risultati, ma per la fedeltà nei confronti di chi lo nomina o per la diligenza formal-legalistica con cui si attiene alle regole. I dirigenti attuali ci costano troppo per quello che fanno, ma difficilmente potrebbero fare altrimenti, se non si cambia sopra e sotto. Se ti do gli obiettivi, il resto spetta a te, poi ne rispondi, ma se non ti do risorse e ti lascio senza direttive, al massimo - se sei onesto - avrai la frustrazione di vedere quante cose andrebbero fatte che non riesci a fare. Quindi, certo responsabilizzazione, ma con annessi e connessi.

Interventi straordinari

I cinesi, che sono i migliori intenditori di burocrazia avendo avuto una burocrazia millenaria con cui hanno costruito un impero (la burocrazia, usata bene, è uno strumento eccezionale, non un impedimento) quando non riuscivano a cambiare la loro burocrazia divenuta troppo forte, cosa facevano? Spostavano la capitale da un’altra parte e impedivano ai funzionari di trasferirsi; per qualche anno erano nei guai, ma poi avevano rigenerato il sistema. Al di là dell’aneddoto, il punto è che se è vero che il vecchio impedisce al nuovo di venire fuori e se è vero che i margini sono ridotti, dubito che si possa mettere mano a queste cose senza una forte soluzione di continuità. Cioè con interventi straordinari: con l’ordinario non è più possibile.

(A cura di Gianni Saporetti)

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Marco Cammelli, già ordinario di Diritto amministrativo all’Università di Bologna, è presidente della Fondazione bancaria Del Monte.

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