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QT n. 9, settembre 2015 L’editoriale

Le emozioni non bastano

Circa quindici giorni fa mi trovavo in corriera e sentivo due signore che parlavano dietro di me. Una serie di lunghe recriminazioni contro l’arrivo dei migranti. Pazienza. Poi la frase incredibile: “La nostra gente, quando aveva guerre o povertà, non andava di certo in altri paesi!

Repressi a stento la voglia di girarmi e rispondere: “Si sbaglia signora. Noi italiani abbiamo invaso il mondo quando eravamo poveri. E noi trentini anche. Ognuno ha in famiglia un lontano parente emigrato. E i miei nonni, mio padre, durante la Grande guerra erano profughi in Moravia. Mi scusi, ma non posso sentire questi discorsi”.

Mi trattenni, per non apparire il sapientone di turno. Ma penso di avere sbagliato.

È incredibile infatti, e da contrastare anche a livello di discorsi minuti, la profonda ignoranza che sta dietro alle paure, ai timori nei confronti dell’immigrazione. Siamo una popolazione storicamente povera, che nei tempi della pellagra imperversante trovò nell’emigrazione un’autentica via di salvezza. E siamo anche stati una popolazione di profughi, nella guerra di cent’anni fa fummo deportati, se in vago odore di irredentismo, in autentici campi di concentramento come Katzenau, oppure se semplicemente miserabili (e la guerra allora ridusse tanti alla miseria assoluta e alla morte di stenti) in Boemia o Moravia, a condividere con le popolazioni locali il poco che avevano. “Erano poveri anche loro, ma qualcosa riuscivano a darci” - mi raccontava mia zia, che all’epoca aveva dodici anni. Oggi per noi, neo ricchi un po’ in crisi, questi sono ricordi scomodi, che vogliamo ignorare. Per poter respingere a cuor leggero chi si trova in quelle condizioni.

L’uomo, però, è un animale strano. Sono bastati i filmati da Budapest e soprattutto l’immagine del piccolino spiaggiato sul litorale di Bodrum come una medusa, a scacciare dai cuori le paure, e far rifiorire l’umanità. Ed ecco la nobile, commovente corsa al soccorso, al sostegno, all’accoglienza di migliaia di derelitti in fuga. Angela Merkel non fa più piangere una bambina palestinese, ma accoglie centinaia di migliaia di siriani, ed opera adeguati, miliardari stanziamenti di bilancio. Le bestie neonaziste scompaiono, gli sciacalli alla Salvini si rintanano.

Viva le emozioni, quando riscaldano il cuore. Ma sempre emozioni sono. Solo su di esse non si può costruire una politica. E meno che mai un nuovo assetto della società, che è quello che il tema dei migranti oggi impone.

Oltre le emozioni occorre anzitutto costruire una cultura; che è fatta di storia, come abbiamo raccontato all’inizio, ed è fatta di valori. Il valore dell’accoglienza, della laicità, della libertà a iniziare da quella religiosa (è mai possibile oggi il pregiudizio verso chi pratica una fede diversa? Purtroppo sì, ed è un sentimento antecedente il terrorismo islamico, basti ricordare l’indecente gazzarra leghista al cimitero di Trento contro una trentina di tombe perché islamiche, cioè orientate verso la Mecca, ossia oblique di 40 gradi rispetto alle altre).

Ed occorre costruire una politica che sappia guardare al domani. Pressoché tutti gli economisti e tutti i demografi sostengono l’assoluta necessità dell’immigrazione in paesi come il nostro a bassa natalità ed elevata emigrazione. Sì, perché i nostri giovani si spostano, lavorano all’estero (in ben altre condizioni da quelle dei loro nonni), accumulando esperienze che spesso riportano in patria, ma a volte no. È un flusso, uno scambio positivo in termini di capitale sociale; però a saldo demografico negativo. Tutto questo rende l’Italia e l’Europa bisognose di nuove forze: senza nuovi cittadini il sistema di welfare crollerebbe, a iniziare dal sistema pensionistico. Angela Merkel non si è fatta travolgere dai sentimenti, ha semplicemente fatto due calcoli.

Però questo rivolgimento della società, questa inclusione di nuovi cittadini, abbisogna appunto di una cultura e di una politica. L’immigrazione non può essere vista come un’invasione, ma come un’opportunità. Cesare conquistando la Gallia ne dimezzò la popolazione civile; eppure pochi anni dopo a Roma in Senato sedevano rappresentanti Galli. Augusto conquistò la Spagna con tale durezza che in diversi villaggi preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi; ma ottant’anni dopo era imperatore uno spagnolo, Nerva, e poi Traiano, Adriano ecc. Noi non abbiamo, per fortuna, tanta spietatezza: ma se avessimo analoga lungimiranza?

Ci servono milioni di nuovi cittadini (in tutta Europa addirittura 250 entro 40/50 anni secondo alcuni demografi): perché, invece di subirli come una drammatica iattura, non prepariamo, indirizziamo, valorizziamo questi indispensabili arrivi?