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Estate greca

Appunti da un paese umiliato

Cinque luglio, ore 19. Sul ferry partito da Volos i passeggeri greci seguono sugli schermi i risultati, man mano che procede lo spoglio (in Italia ce la sogniamo una conta così trasparente), comune per comune e la somma finale si aggiorna in tempo reale. Gli intervistatori fanno domande vere sulle questioni che tengono il piccolo stato ellenico col fiato sospeso. Le persone parlano a bassa voce: presto si capisce che vincerà il no (61% contro 38%. Un voto contro i vecchi politici corrotti di Nea Demokratia e Socialisti, che hanno incassato ed esportato fiumi di denaro, e poi chiuso uffici, ospedali e scuole e tagliato l’elettricità a chi non pagava tasse assurde.

I nuovi, Tsipras, Varoufakis, sono persone oneste, che possono sbagliare, ma stanno cercando di fare qualcosa. Raccontano della telefonata di Renzi a Tsipras, in cui il primo raccomanda moderazione, “perché quelli lassù (Eurogruppo) fanno sul serio” e la risposta di Tsipras: “Non posso tradire il mio popolo”. Arrivando, si rivelano false le voci che girano nel resto d’Europa sui rischi per i turisti che si recano in Grecia (niente soldi ai bancomat né benzina ai distributori). Però c’è il timore che la propaganda tenga lontani i turisti. La Grecia produce frutta e verdura e yoghurt splendidi, ha siti e musei fantastici, ma l’Unione Europea ha finanziato grandi strade e laghi artificiali che hanno distrutto immense aree e sono rimasti, rispettivamente, deserte e vuoti d’acqua; ha dato somme enormi a chi ha cementificato con manodopera in nero baie meravigliose.

Poche ore dopo la vittoria, Tsipras chiede al famoso economista di dare le dimissioni. Ho letto i libri di Varoufakis e lo stimo, non capisco. Mi sembrava un’accoppiata fortissima. I miei amici pensano che Varoufakis abbia ragione, ma che Tsipras abbia fatto bene a fare di tutto per evitare la Grexit. I greci non vogliono essere cacciati dall’euro, hanno fatto sacrifici per entrarci, e temono il caos all’inizio della stagione turistica. La campagna denigratoria dei mass media in Germania, partita dalla Bild e arrivata a Der Spiegel, ha avuto il suo effetto, accecando i politici, Merkel compresa. Il parlamento greco, dopo una lunga notte, approva con una maggioranza trasversale il “pacchetto della vendetta” dei partiti di destra che egemonizzano l’Eurogruppo. Der Spiegel, troppo tardi rinsavito, lo definisce “un catalogo di atrocità”. Dopo, fra la gente, la preoccupazione lascia il posto alla rassegnazione. Sulle isole riprende la vita estiva. I turisti sono venuti più numerosi del solito, per evitare altri lidi pericolosi e anche per simpatia verso il paese, prima vittima europea della politica contro i popoli. Si canta e si discute come ai vecchi tempi, almeno per un po’, come le cicale, come sul Titanic. Penso alla moneta da un euro, con la civetta, simbolo di saggezza, della dea Atena. E a quella da due euro, che raffigura Zeus in forma di toro che rapisce la fanciulla Europa, che gioca sulla riva del mare del Libano con le sorelle Asia e Africa, e la porta in groppa a Creta.

L’Europa è intrisa di Grecia, è la nostra radice culturale. Finiremo per non capire noi stessi e dimenticare che l’Europa era un sogno di libertà e di pace per tutto il mondo. T. Apostolides, professore, e G. Akokalides, disegnatore e scenografo, hanno pubblicato una versione grafica delle commedie di Aristofane. Come si sa, narrano tutte, in forma satirica, di tentativi del popolo, e specialmente delle donne, di sconfiggere la politica che persegue una guerra fratricida fra le città. Trattandosi di commedie, finiscono bene, con la sconfitta dei vecchi politici e il trionfo della pace. Spassose. E attuali, salvo nel finale: la guerra economica e culturale della Germania contro la Grecia non finirà bene per nessuno. Fare debiti per pagare debiti non è una soluzione.

Nella regione della Macedonia, terra di Alessandro Magno, a nord del monte Olimpo, ho attraversato splendidi frutteti con fattorie semplici e dignitose inframmezzate da siti archeologici e musei nuovi e bellissimi. A Salonicco, testimonianza di multiculturalità millenaria, il museo ebraico racconta di un popolo cacciato dalla Spagna nel 1492 che costituiva un terzo della cittadinanza e che è stato cancellato da un incendio e poi dalla furia nazista; e nel Lefkos Pyrgos (Torre bianca), antica torre del sangue, che contiene la storia della città, a quel terzo è dedicato solo un frammento insignificante.

Anche l’autostrada che attraversa la ex Yugoslavia incrocia i popoli in cammino. Prima di Gevgelija, al confine fra Grecia e Fyrom (lo stato macedone indipendente), gruppi di uomini, donne e bambini, magri, bruciati dal sole cocente, la attraversano infilandosi nei campi. Vanno verso il confine in mezzo alle coltivazioni. Sono i siriani. Senz’acqua in un giorno caldo, senza aiuti.

In maggio, diretta a Vienna attraverso il Brennero, avevo viaggiato da Bolzano a Innsbruck in vagoni pieni di ragazzini somali ed eritrei. Sembravano scolari in gita. Scolari stanchi e spaventati, e poi sorpresi ed entusiasti della neve al confine, rivestiti e rifocillati da Volontarius a Bolzano, ma abbandonati a un destino senza protezione e oggetto dei respingimenti, orribile gioco del pallone umano fra i paesi dell’Europa. In Serbia,quando lodo la bellezza della loro terra e della loro città (Niš), i giovani rispondono in ottimo inglese che vogliono andarsene, in Svizzera possibilmente.

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