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QT n. 9, settembre 2015 Monitor: Danza

“Oriente occidente 2015”

Corpi in conflitto

Dopo il ritrovato successo della passata edizione, anche per il suo 35° compleanno “Oriente Occidente” ha proseguito l’indagine sulla conflittualità insita nel corpo in movimento, intitolandola significativamente “La bellezza della diversità”. Sulla bellezza ci sarebbe da discutere per un’edizione durante la quale qualche spettacolo è addirittura scivolato verso il grottesco, mentre la diversità, intesa nella doppia accezione di varietà (di proposte e di luoghi) ma anche di difformità tecnica, si è vista in abbondanza.

Ed è un corpo scomposto ad aprire il Festival, quello della giovane autrice Irene Russolillo, che si presenta in scena declamando in forma di canto alcuni sonetti di Shakespeare: un corpo algido e dinoccolato, che appena ridestatosi da un incubo cerca un senso nella ripetizione ossessiva degli eventi. Un corpo che nella sperimentazione delle proprie possibilità espressive si fa voce (“A loan”), mentre risuona come uno strumento o un battito cardiaco nella performance “Postproduzione” dell’altro giovane coreografo Andrea Gallo Rosso.

Dai corpi sospesi in assenza di gravità sotto la cupola del Mart proposti dalla compagnia Cafelulé si passa a quelli imprigionati tra le fronde di una sorta di canneto interattivo portati in scena dalla compagnia O Vertigo in “Khaos”: specchio della frenesia del mondo contemporaneo, caratterizzato da un andirivieni incessante e non-sense in cui gli individui s’incontrano e si scontrano mossi da forze incontrollabili, senza mai riuscire a stabilire un piano di vera comunicazione. Il gruppo si fa invece forza e massa critica in “Sacré printemps” della compagnia Chatha, mossa dal nobile intento di portare sul palco la lotta di emancipazione del popolo tunisino in uno spettacolo che pecca però per ripetitività e inadeguatezza tecnica degli interpreti.

È forse quindi nella solitudine che il corpo riesce a ricomporsi in una solidità fluida e calibrata come sembra suggerire il coreografo d’origine napoletana Paco Dècina, di ritorno da un ascetico pellegrinaggio sulle Isole Crozet (sperdute nel remoto Oceano Indiano) e trapiantato nelle sale del MUSE con “La promenade”, suggestivo itinerario a passo di danza tra le sale, a cui fa quasi da contraltare la più prosaica performance coreutico-culinaria “Exquises” della compagnia Lanabel, che avrebbe forse trovato miglior ambientazione in un ristorante piuttosto che in un museo e che ha dato ampio spazio ai corpi “ruminanti” (come da voce del menu della serata) degli spettatori, serviti direttamente al tavolo da due scattanti maîtresses.

E veniamo a due degli spettacoli più discussi di quest’edizione di Oriente Occidente: quello della sudafricana Robyn Orlin e quello dell’israeliano Arkadi Zaides. In “Beauty remained for just a moment then returned gently to her starting position...” -titolo che è quasi un’allusione al rapido svanire della bellezza che, nel corso dello spettacolo, cede presto il passo alla sfrontatezza- la Orlin tenta di portare in scena la vitalità del suo paese e lo fa costringendo il pubblico a interagire in un botta e risposta un po’ forzato, che strizza l’occhio al cabaret più che alla danza contemporanea. Di tutt’altro tenore la performance “Archive” di Arkadi Zaides: aspra denuncia delle continue provocazioni perpetrate dai coloni israeliani ai danni del popolo palestinese; in questo caso il forte messaggio sociale si arena in una messa in scena piuttosto criptica, che perde la forza comunicativa del movimento nella ricerca formale del gesto. Spettacolari invece nella loro limpidezza formale e nella loro esecuzione tecnica le coreografie delle altre due compagnie israeliane presenti al Festival: L-E-V e Inbal Pinto e Avshalom Pollak Dance Company, due graditi ritorni e due riconferme dell’originalità espressiva di questo paese, che sembra sublimare in una danza onirica e cristallina l’impeto aggressivo che riversa in altri frangenti.

Molto ironico lo spettacolo “OVO/una deviazione dal percorso originale”, del coreografo napoletano Marco Auggiero, che riflette sul concetto di evoluzione/involuzione della specie; involuzione su cui si sofferma in senso negativo anche “Bit” di Maguy Marin: messinscena ossessiva e a tratti oscena dedicata alle perversioni e alla perdita di valori della società postmoderna. Temi su cui riflette anche l’ultima coreografia in programma, “Voronia”, dello spagnolo Marcos Morau, che nonostante le atmosfere cupe, dimostra come un percorso di ascesa dagli “inferi” sia ancora possibile.