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“La scelta di Cesare”

Un triste uomo solo e un dialogo mancato

Lucrezia Barile

La scelta di Cesare”, in programma dal 27 ottobre all’8 novembre al Teatro Cuminetti di Trento, ha inaugurato la stagione di prosa del Centro Santa Chiara. Anche quest’anno il primo appuntamento ha visto in scena Andrea Castelli, stavolta alle prese con un monologo tratto dall’omonimo libro di Pino Loperfido. La regia è firmata da un altro trentino, il giovane Andrea Brandalise, al debutto in questa veste.

Il testo nasce dalla necessità di dire qualcosa su Cesare Battisti alle soglie del centenario della morte, senza guardare indietro ma con l’urgenza di parlare al mondo di oggi. Il programma di sala annuncia un “monologo che racconta un dialogo, attraverso il quale scopriamo tre personaggi”. La figura del patriota è solo la miccia che accende lo svolgimento. Il versante storico-politico è certo importante, ma resta intenzionalmente sullo sfondo; il centro della vicenda è nel confronto-scontro generazionale tra un padre e un figlio. Sul palco un uomo sulla sessantina, Gian Paolo Tomazzini, si aggira per un salotto - la scena, naturalistica ed essenziale, è apparecchiata da Roberto Banci - raccontando il difficile rapporto con il ventunenne Cesare. Lo fa fin dal principio: le battute iniziali ritraggono questa frizione ancora prima di entrare nel vivo della questione. Cesare si sta laureando con una tesi sul Cesare Battisti geografo. Un colpo basso per il protagonista, che sul personaggio storico non ha mai preso veramente una posizione, accettando acriticamente la tradizione “austriacante” di famiglia che lo dipinge come traditore e filibustiere. Tomazzini riporta i pensieri di più personaggi (il figlio, il padre, il nonno) in una narrazione delirante, in alcuni momenti resa più drammatica dall’ambientazione sonora studiata da Vittorio Albani, elemento che evidenzia volutamente l’effetto della presenza di molteplici voci nella sua testa.

La tensione raggiunge il clou quando Cesare di colpo decide di dire tutto al padre. È una partita a scacchi (in senso figurato e materiale) in cui Cesare mette in campo un’appassionata difesa del Battisti geografo e intellettuale impegnato, rimproverando al padre di non aver mai avuto convinzioni profonde da difendere. Il genitore incassa il colpo e deve riconoscere al figlio, oltre alle ragioni storiche, anche quel coraggio e quella forza morale che a lui mancano.

Il testo di Loperfido - che a volte eccede nella cumulazione di dettagli - non dà e non vuole dare un giudizio esplicito sulla figura di Battisti. Una valutazione globale positiva traspare, ma più che sul personaggio in sé l’autore intende promuovere il lato etico dell’amore per le proprie convinzioni. Il piano etico e quello storico-politico si fondono bene.

Appare un po’ forzato l’happy ending - col figlio ammantato di un’aura di perfezione un tantino favolistica - che peraltro ha il pregio di voler valorizzare le giovani generazioni.

Nel complesso positiva l’interpretazione di Andrea Castelli, a suo agio nei panni del padre, già rivestiti in passato. Il personaggio di Gian Paolo Tomazzini rimanda al Carlo Cagol di “Avevo un bel pallone rosso”; ma mentre quello si teneva dentro un dolore mascherato da pudore, questo si sfoga dando vita ad un complesso monologo interiore. Tomazzini, a differenza del figlio, non ha una cultura elevata (chiama Giulio Cesare “l’imperatore”, svarione storico non presentato come tale, e che qualcuno sulla stampa locale ha ripreso come oro colato), così l’attore giustamente non marca le diversità delle voci dei vari personaggi che cita, mantenendo un registro univoco e più consono al personaggio che impersona. Accorto anche l’utilizzo dei silenzi e dei piccoli gesti.. Accorto anche l’utilizzo dei silenzi e dei piccoli gesti.

Andrea Brandalise opta per una regia leggera e minimale, rispettosa del testo, da bravo allievo di Marco Bernardi. L’esperienza accumulata alla scuola dello Stabile di Bolzano si avverte tutta. Le scelte operate in generale funzionano, anche se viene da chiedersi se la forma monologo - fin dall’inizio del progetto l’unica contemplata - fosse davvero la migliore possibile. Ammesso che il monologo ha l’indubbio merito di sottolineare la solitudine e il delirio di Tomazzini, tuttavia in alcune occasioni la presenza della controparte del figlio avrebbe potuto essere un valore aggiunto. In una scena Tomazzini cerca di mettersi in comunicazione con lui cercando un “rito leggendario chiamato dialogo”, in un’altra definisce il rapporto “un dialogo tra sordi”. Due battute due da cui si intuisce che tra il padre e il figlio un dialogo, magari cifrato e ostico, comunque c’è.