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QT n. 5, maggio 2016 La storia

Fabio: una vita in casa famiglia

Rabbia, botte, risentimenti: una vita travagliata dentro e fuori la famiglia. Storia a lieto fine di un ragazzo che non sembrava trovare una sua maniera di affrontare la vita.

Maggio 2012: entro in una classe, per fare la mia lezione. Un banco, però, risulta vuoto. Uno dei miei ragazzi, Fabio, ha comunicato la decisione di ritirarsi da scuola.

Fabio è un ragazzo silenzioso, assorto nei propri pensieri. Glielo leggi in faccia che preferirebbe essere da tutt’altra parte, piuttosto che stare ad ascoltare le lezioni. Come insegnanti sappiamo solo che ha una situazione familiare molto complicata e che non ha la serenità sufficiente per affrontare gli studi.

Lo ritroverò qualche anno dopo, già adulto. È aperto, spigliato e spiritoso: sembra un’altra persona. Il suo profilo Facebook me lo conferma: addirittura partecipa a progetti in cui racconta la sua storia ad altri ragazzi. Mi incuriosisco e gli chiedo di raccontarla anche a me e ai lettori di QT. Lui non si fa pregare.

La storia di Fabio

Fabio nasce a Gibuti, una ex-colonia francese schiacciata fra Etiopia ed Eritrea. Arriva in Italia a 16 mesi, a seguito dell’adozione da parte di una famiglia italo-francese. Per i primi 12 anni va tutto secondo i piani: cresce in famiglia, assieme alla sorella, adottata anche lei. Poi qualcosa tra i due genitori si incrina, la tensione in famiglia aumenta, la situazione peggiora: a 13 anni, Fabio assiste inerte all’uscita da casa del padre. È una separazione difficile, che a Fabio lascia rabbia e risentimento.

Prova odio verso i genitori, non li sopporta. La fase adolescenziale più delicata e i postumi della separazione hanno conseguenze devastanti sul suo stare a scuola, al “Tambosi”: “Dall’essere il ragazzo tranquillo, quello dell’ultima fila che non rompe le palle a nessuno, inizio a frequentare brutte compagnie. Atti vandalici, risse e bullismo. Ero schedato dalla polizia e dai carabinieri. A casa avevo liti furibonde, si alzava le mani con facilità. In seconda sono stato bocciato”.

Vista la grave situazione, la madre chiede l’intervento dei servizi sociali: Fabio si trova a parlare con queste persone, ma non ha ben chiaro quale sia il loro ruolo o funzione. “Era una cosa imposta da mia madre, io ci andavo e basta”.

Fabio decide allora di non ripetere l’anno al “Tambosi”, preferisce cambiare scuola. Si iscrive al Liceo Economico Sociale del “Rosmini” di Trento, diventando un mio studente. È l’autunno del 2011.

Come insegnante, noto che è un ragazzo che ha altro per la testa: ci scherzo un po’, con lui come con altri, su questa voglia di evasione dalla scuola tipica dei ragazzi di quell’età.

Alla fine dell’anno scolastico, mia madre non riesce più a gestire la mia presenza in casa e si rivolge alla Questura. Voleva capire come avviare un iter per salvaguardare se stessa e il nucleo familiare. Per fare questo, le dicono, era necessario denunciarmi. E lei, non certo a cuor leggero, mi denuncia”.

Di lì a poco il Tribunale firma un’istanza che obbliga Fabio ad andare via di casa nel giro di qualche tempo.

La nuova casa

L’assistente sociale, intervenuto su incarico del giudice, illustra a Fabio la possibilità di andare a vivere in gruppi famiglia o in comunità. Non che ci siano molte altre alternative: a casa non può più viverci.

Fabio sceglie la Comunità “Murialdo”, quella caldeggiata dall’assistente sociale, e lui si fida. Assieme ai genitori conosce l’educatore, la casa famiglia e i ragazzi che accoglie.

Fabio accetta, anche se c’è un aspetto che proprio non gli piace. “Ogni fine settimana dovevo tornare in famiglia. La cosa non mi andava per niente giù. Quella realtà lavorava a contatto con le famiglie, per dare la possibilità ai ragazzi allontanati di rielaborare la situazione e provare a riallacciare i rapporti. A me sembrò una cazzata: odiavo i miei genitori, ritenevo di non aver più bisogno di loro, e non capivo perché mi costringevano a tornare in famiglia la domenica. Volevo solo terminare il periodo in comunità per poi andarmene per i fattacci miei. Per questo, di lì a poco ho mollato la scuola, perché volevo andare a lavorare”.

Inizia a frequentare percorsi formativi con la cooperativa Samuele: in un primo tempo prova a coltivare gli orti, poi fa il barista nel bar di una scuola di Trento.

Fabio pensa di essere un lavoratore indipendente, e in quanto tale, prova fastidio per quelle domande “da genitori” che gli educatori continuano a fargli. Un giorno dà in escandescenze: “Cosa ci facevo lì? Attorno a me c’erano persone con un disagio molto evidente (difficoltà cognitive o altro). Credevo di essere in una cooperativa perché avevo in sospeso l’obbligo formativo attraverso il lavoro. In realtà ero un utente di quella cooperativa. Avevo bisogno di aiuto, evidentemente, ma non sapevo il perché. Ero in un contesto sociale che non capivo, e al mio odio contro i genitori si sommò l’odio nei confronti degli educatori”.

E poi ci sono le domeniche a casa. Nel primo anno sono giorni infernali: Fabio va spesso fuori di testa e alza le mani con facilità, costringendo la madre o la sorella a chiamare le forze dell’ordine. In quel periodo l’educatore chiama in famiglia anche due volte a settimana e questo non fa che aumentare il fastidio di sentirsi così assiduamente sotto controllo.

Il viaggio a Milano

Tramite Facebook, Fabio conosce un uomo. Una persona amichevole e spontanea con cui fa presto a fare amicizia. È la prima volta che si confronta con un adulto, che a sua volta lo tratta da persona adulta (anche se ha solo 17 anni). Fabio si sente subito a suo agio.

Questa persona lo invita a passare un weekend a Milano. Fabio vuole andarci e mente agli educatori, dicendo sarebbe andato da un amico a Bolzano. Gli educatori provano a fermarlo, ma senza riuscirci: la responsabilità del weekend, infatti, ricade sulla madre, la quale è troppo stanca per opporsi, e dà l’assenso.

Giunto a Milano, mi rendo conto che le intenzioni di quest’uomo sono altre. Nessun interesse ad aiutarmi o a trattarmi come un adulto, come credevo. Subisco, invece, un tentativo di violenza e di aggressione: con uno stratagemma riesco a mettermi al sicuro e contatto l’educatore, spiegandogli la situazione. Lui mi suggerisce di recarmi all’Ufficio di Polizia della stazione di Milano. Faccio come mi viene detto. I poliziotti, però, non possono mettermi sul treno, visto che sono minorenne: qualcuno deve venirmi a prendere”.

L’educatore, Fabrizio, non batte ciglio: parte e va a riprendersi Fabio a Milano, portando con sé la sua ragazza incinta di otto mesi. Fabio apprezza: capisce che può fidarsi di lui, comincia a capire qualcosa in più della sua vita e gli viene voglia di riprendersela.

La svolta

Inizia un periodo virtuoso, per Fabio: lascia le brutte compagnie, si impegna di più nel lavoro, si iscrive al serale del “Rosmini”, riprendendo gli studi interrotti anni prima. E poi la ciliegina: riallaccia progressivamente i rapporti con la madre e la sorella, con cui inizia ad andare d’accordo.

In quel periodo trovo un nuovo lavoro alla cooperativa Samuele, quella in cui avevo svolto il percorso educativo. Era un piccolo impiego di una settimana. Sono passati tre anni e sono ancora lì. Inizialmente ho lavorato come barista, poi mi hanno chiesto di fare l’operatore. Ora seguo i ragazzi che fanno i percorsi formativi lavorativi. Mi sono trovato a operare insieme con persone che fino a qualche tempo prima erano utenti della cooperativa, esattamente come me”.

Fra un po’ Fabio terminerà la sua esperienza in comunità: a 21 anni ha raggiunto i limiti di età. Andrà a vivere in un appartamento, che è un nuovo progetto sociale che coinvolge ex utenti delle comunità e studenti universitari. Nel 2017 terminerà la scuola, poi si iscriverà all’Università per studiare come educatore socio-sanitario.

Una storia che Fabio ha scritto, e scriverà sul suo corpo con i tatuaggi: ne ha tantissimi e sono tutti significativi, viste le esperienze che raccontano. Aveva anche tentato di imparare a farli, i tatuaggi, ma poi la sua vita ha preso altre strade.

In futuro leggeremo ancora qualcosa di lui: Fabio sta scrivendo un libro, in cui parlerà della sua vicenda e dei progetti che sta sviluppando con alcune associazioni e cooperative con cui collabora. Se ne avremo la possibilità, saremo ben lieti di parlarne ancora su queste pagine.

Il progetto “Datti una Mano”

Nell’ambito del progetto “Trento 0-18”, il Comune di Trento ha attivato una serie di iniziative rivolte all’autonomia e protezione dell’infanzia e dell’adolescenza. Tale iniziativa si basa sui diritti sanciti dalla Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza emanata dalle Nazioni Unite nel 1989 e inserita nell’ordinamento italiano nel ‘91.

Spesso è difficile, da parte degli operatori sociali, venire a conoscenza di casi in cui c’è la necessità di fornire un aiuto (violenze da parte di adulti, bullismo, difficoltà relazionali...). Per questo, dal 2014-15, “Trento 0-18” ha costituito un sottogruppo composto da Comune, rappresentanti del Sociale e ragazzi che vivono nella case famiglia, gruppo di cui fa parte anche Fabio, il protagonista della storia che abbiamo raccontato.

Questo gruppo si chiama “Datti una mano” e si occupa di diffondere fra i ragazzi il concetto del diritto di chiedere aiuto: bisogna infatti liberarsi dell’idea che chiedere aiuto sia un’ammissione di inferiorità sociale, se non addirittura un motivo di vergogna.

L’iniziativa è basata su incontri di due ore nelle classi superiori, cui partecipano un ragazzo che racconta la sua testimonianza e due rappresentanti del Servizio Attività Sociali del Comune, Andrea Rizzonelli e Francesca Ruozi, ai quali abbiamo chiesto qualche dettaglio sull’iniziativa.

Come è organizzato un incontro?

Dopo un momento di conoscenza della classe, spieghiamo i diritti che hanno i ragazzi e quali possibilità hanno di chiedere aiuto, qualora si trovassero in difficoltà. Successivamente i nostri testimoni raccontano la loro storia, facendo capire quanto sia più importante farsi aiutare anziché mantenere il riserbo su quanto gli è accaduto. Poi diamo la parola ai ragazzi: facciamo scrivere loro qualunque cosa vogliano comunicare su un post-it: può essere un’esperienza, una denuncia, una domanda, un feedback. A quel punto leggiamo i biglietti rielaborando l’incontro alla luce delle loro domande o dei loro racconti”.

In che modo reagiscono i ragazzi ai vostri interventi?

Attraverso queste testimonianze durante gli incontri diamo la possibilità di far emergere tante altre storie che, in caso contrario, resterebbero nascoste. Attraverso i post-it spesso escono cose forti (un lutto, situazioni di violenza subita in casa...). Ma il momento che catalizza l’attenzione è quello della testimonianza: di fronte alle esperienze di vita vissuta gli studenti tendono a seguire in maniera molto seria ed attenta”.

Che cosa succede se durante un incontro venite a conoscenza di situazioni delicate?

“Qualche volta è capitato. In primo luogo ribadiamo con forza che la persona ha diritto ad avere un aiuto e che non deve temere di chiederlo. Poi comunichiamo informazioni più dettagliate sul caso specifico, e prendiamo contatti con gli insegnanti per mantenere monitorata la situazione”.

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