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QT n. 11, novembre 2016 L’editoriale

Renzi Sì o No?

Bisogna valutare nel merito!” Questo il refrain sull’attuale referendum costituzionale. Un invito innanzitutto di buon senso: perché mai una riforma della nostra Carta fondamentale dovrebbe essere valutata per motivi diversi da quello che essa propone? Sull’affinità politica con il proponente, o peggio, sulla maggior o minor simpatia? Noi seguiamo questo invito, e infatti dedichiamo quattro pagine, a partire dalla 18, a analisi contrapposte delle riforme proposte.

Ma non lo seguiamo per intero. Perché ci pare evidente come – proprio a causa dell’improvvida, inopportuna e perdurante sovraesposizione del leader – il referendum abbia assunto anche, e forse soprattutto, un altro significato: Matteo Renzi Sì oppure No?

Cerchiamo quindi qui di esporre i motivi di questa porzione del quesito. Consci che di una porzione pur sempre si tratta, nella decisione finale si dovrà badare anche al merito. E ponendo una premessa: chi scrive ha poca simpatia per il guascone fiorentino, dalla cui cultura e atteggiamenti si sente lontanissimo, quasi quanto da quelli dell’ormai eclissato imbonitore di Arcore.

Detto questo, ci sono gli aspetti positivi dell’azione di Renzi. A iniziare, oltre le innumeri, insopportabili sparate (ricordate quando prometteva una riforma strutturale – scuola, giustizia, pubblica amministrazione, fisco – al mese?) dal suo dinamismo. Che ha portato a tutta una serie di provvedimenti, sicuramente non epocali ma effettivi (o anche decisamente positivi, come le unioni civili), e a una presenza significativa sulla scena internazionale, tradottasi anche in una serie di endorsement pro referendum, da Obama a Merkel, che conteranno poco per l’elettore italiano come peraltro giusto, ma che testimoniano a favore di una certa credibilità personale. E peraltro su tutta una serie di questioni - migranti, Libia, terrorismo, Europa - Renzi si è mosso con accortezza e soprattutto guidato da alcuni principi cardine condivisibili. Anche la nomina della Mogherini a rappresentante della Ue per gli affari esteri (da noi a suo tempo criticata) è risultata azzeccata e, compatibilmente con lo stato comatoso della politica europea, produttiva.

Dove Renzi invece ha del tutto deluso, è stato nella “rottamazione” poi tradottasi nel meno violento ma più radicale “cambiar verso all’Italia”. Non si è cambiato verso a niente: rottamati i D’Alema, emarginati i Bersani cioè i concorrenti interni, Renzi non ha avuto problemi ad accordarsi con vecchi arnesi come De Luca, ma soprattutto a perpetuare gli eterni rapporti e accordi con il mondo bancario, burocratico, lobbysta. Sostituire Enrico Letta con Denis Verdini non ci sembra un passo avanti. Su questo fronte anzi, si sono fatti decisi passi all’indietro: quando in nome della celerità delle decisioni, o meglio, delle opportunità per l’affarismo, si disprezzano le tutele, a iniziare da quelle artistiche e culturali (con le “sovrintendenze” esplicitamente dichiarate enti nemici) è tutto un orizzonte che sembra nuovo, in realtà è decrepito, riverniciato di nuovismo.

Solo riverniciato è anche il rapporto con gli elettori. La politica fiscale che taglia le tasse (Imu) ai ricchi, demonizza la riscossione, promette condoni (rientrati per l’opposizione di Mattarella); i bonus, che presentati come sacrosanta spinta ai consumi popolari si sono invece rivelati sostitutivi di ben più incisivi sgravi al lavoro, si presentano come una riedizione della consunta politica delle mance. E su questo, oggi, rischiamo un suicida scontro con l’Europa, quando la finanziaria destina – a meno di auspicabili correzioni – la massima parte degli sforamenti di bilancio non alle ricostruzioni post terremoto, ma alle elargizioni elettorali.

Il che da una parte evidenzia la ristrettezza della visione politica, rimasta ai tempi dei Gava e dei Lauro che regalavano spaghetti e scarpe in cambio di voti. Dall’altra anche la fragilità della stessa tattica: come si fa a ridursi a incanalare il proprio futuro, e in generale tutto il discorso politico attorno a un Sì o a un No su questioni che – per quanto se ne dica – non sono certo discriminanti ed epocali?

Matteo Renzi insomma, è un innovatore del tutto fasullo, non si può riformare un paese a forza di tweet ispirati a una cultura dorotea.

La forza del Presidente del Consiglio è un’altra: la pochezza degli avversari. Se è dura votare per lui, altrettanto lo è farlo per il fronte opposto: non tanto perché composito (come quasi sempre, fatalmente, sono i fronti delle opposizioni) ma perché poco autorevole. Sinceramente, quando si sente denunciare i “poteri forti” da Massimo D’Alema, che tra le tante cose ha gestito l’incredibile privatizzazione di Telecom e introdotto il gioco d’azzardo nei bar, cascano le braccia; e più in generale, il fronte del No ha il problema che non presenta, in alcuna sua parte, un’idea non dico forte, ma un po’ salda, che non sia il mero contrario di quanto il premier va in quel momento affermando. “I signornò” li chiama Renzi, e non ha torto.

Anche se farebbe meglio a non contare troppo sul timore del vuoto, dopo di me il diluvio. L’Italia ha spesso trovato nei momenti di impasse un Dini, un Monti, un Letta, che hanno fatto meglio dei predecessori, anche se solo nel superare l’emergenza.

Ma qui tocchiamo altri temi.