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I buoni propositi di Hollande

Il deludente vertice Euro-Med di Lisbona: un’altra occasione sprecata per l’Europa

Si è da poco concluso a Lisbona (28 gennaio) un ennesimo vertice dei cosiddetti paesi Euro-Med, ovvero dei paesi europei della UE che si affacciano sul Mediterraneo (Grecia, Cipro, Italia, Malta, Francia, Spagna e Portogallo). Un vertice più importante come forum di discussione sui problemi comuni a questi paesi che non per le decisioni che in quella sede possono essere prese.

Si è parlato ovviamente del tema bollente dell’immigrazione e della sicurezza europea e soprattutto del tema del rilancio delle economie ormai da troppo tempo stagnanti dei paesi del Sud Europa, in relazione sia alla perdurante politica di austerity imposta dalla Germania della Merkel sia alla minaccia incombente del protezionismo rilanciato da Donald Trump.

I problemi sul tappeto e le possibili soluzioni sono state riassunte in una frase di Francois Hollande: “Dobbiamo avere un dialogo con l’Africa, una politica estera comune e un dialogo molto deciso con l’amministrazione americana”. Tre obbiettivi, lucidamente delineati e concisamente enunciati, in cui si rivela tutta la debolezza della UE, che evidentemente su questi tre temi cruciali non ha ancora una linea comune, non solo, ma pare anche lontana dall’essere in grado di potersene dotare.

Il vertice Euro-Med di Lisbona denuncia già nella sua composizione alcuni elementi di fragilità. Rispetto alla UE e alla sua cabina di regia tedesca, esso rappresenta un po’ una “fronda” che ancora si muove prevalentemente attraverso proclami e più o meno roboanti dichiarazioni, ma nessuna linea comune. La Francia l’Italia e la Spagna versano in una crisi occupazionale (per l’Italia anche finanziaria) paurosa e non sono in grado di dettare regole, a meno di ricorrere a un ricatto in stile Brexit, che però ha le gambe corte, cortissime.

Questi paesi, in particolare l’Italia e la Francia, hanno economie così fortemente integrate sul piano industriale e finanziario con la Germania che una uscita dall’euro o peggio dalla UE è praticamente impensabile. Manca ai paesi dell’Euro-Med anche la capacità di aggregare altri paesi, per esempio quelli dell’Europa del Nord (Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia) e quelli dell’Est (dalla Polonia all’Ungheria, dalla Cekia alla Slovenia) i quali, nonostante le difficoltà e qualche mugugno, fanno sempre blocco con la locomotiva tedesca. Tuttavia è fuor di dubbio che qualche carta da giocare il gruppo Euro-Med ce l’abbia: dopo tutto i paesi dell’Europa mediterranea oltre che essere integrati all’economia tedesca ne sono anche clienti di prim’ordine, assorbendo quote importanti del commercio estero tedesco.

Francia Italia e Spagna possono costituire una “minoranza di blocco” in grado di condizionare qualsiasi decisione della UE. Il problema è semmai trovare un’agenda comune tra questi tre paesi e soprattutto avere poi l’energia e la costanza di imporla in sede UE senza remore o titubanze. Troppe volte in realtà ciascuno dei tre grandi paesi latini ha cercato una via nazionale alla soluzione dei propri problemi sollecitando concessioni e accordi separati con la UE e la sua cabina di regia tedesca, ma in tal modo favorendo la politica tedesca del divide et impera.

Un esempio lo abbiamo sotto gli occhi: l’Italia cerca di ottenere l’abbuono di quella correzione dello 0,2% del PIL richiesta dagli organi della UE, che deprimerebbe ulteriormente la nostra fin troppo depressa economia, senza neppure tentare (se non a parole) di porre il problema più generale di un cambiamento della politica economica dell’Unione, sinora orientata a contenere il deficit (secondo l’ortodossia tedesca) piuttosto che a rilanciare produzione e occupazione con politiche “americane” di espansione.

Ora, come s’è detto, incombe la minaccia di politiche protezionistiche americane che, in una sorta di domino, contagerebbero rapidamente il commercio mondiale inserendo un ulteriore fattore depressivo. Per questo il vertice Euro-Med di Lisbona, che non è andato al di là delle perorazioni vibranti per un cambio di linea economica nella UE, rischia di essere ricordato come un’altra occasione perduta e ulteriore tempo sprecato nella ricerca di una via d’uscita dal cul de sac in cui l’Europa mediterranea si è cacciata da sola con la sua politica di acquiescenza all’ortodossia tedesca.

L’Europa e l’Africa

E veniamo all’altro punto accennato nella dichiarazione di Hollande: il dialogo con l’Africa e la politica estera comune. Anche qui siamo di fronte a una bella enunciazione. Sappiamo bene come all’Est e al Nord Europa in sostanza non interessi molto accollarsi il problema dei profughi, risolto brutalmente con la chiusura delle frontiere. In questa situazione ogni paese, dalla Spagna all’Italia, dalla Francia alla Grecia, ha cercato di risolvere o attenuare l’impatto dei problemi a modo suo.

L’Italia si sta spendendo in accordi bilaterali con i paesi arabi del Mediterraneo, Libia in primis; ma replicare con la Libia il grande accordo UE-Turchia per la creazione di strutture di accoglienza in loco in cambio di generosi finanziamenti europei non sembra ancora soluzione alla nostra portata, anche perché in Libia non esiste una struttura di sicurezza e controllo delle coste anche solo lontanamente paragonabile a quella esistente nella Turchia di Erdogan, un paese dotato di forze armate e di sicurezza imponenti.

Di più, al vertice Euro-Med mancavano quei paesi della rotta balcanica dei profughi che, come sappiamo, hanno risolto a modo loro il problema chiudendo le frontiere e favorendo lo spostamento del flusso dei profughi sulla rotta libica. E mancavano soprattutto i paesi arabi rivieraschi, che a questo tipo di vertice non sono stati invitati neppure come osservatori (interessati).

Il vertice Euro-Med, insomma, è espressione, a questo riguardo, di una impostazione in stile coloniale classico, in cui i paesi arabi dell’Africa Mediterranea sono visti essenzialmente come il problema, non come possibili partner nella ricerca di soluzioni del problema. Eppure una politica europea volta a investire maggiormente nel Maghreb, zona relativamente tranquilla rispetto alla Libia e già da tempo interessata a un discreto sviluppo economico, sarebbe indubbiamente nell’interesse a lungo termine dell’Europa, che vedrebbe una parte del flusso di profughi fermarsi in Africa del Nord.

Più complesso il problema dell’Egitto, paese che sfiora ormai i 100 milioni di abitanti, afflitto da problemi cronici di disoccupazione. L’Egitto è stato definito una bomba ad orologeria, eppure le risorse umane di manodopera a costi irrisori e quelle di gas e petrolio scoperte dall’ENI al largo della costa egiziana lasciano intravedere qualche speranza. Speranze che l’Egitto, lasciato solo e in balia di una casta militare, difficilmente saprebbe realizzare. Qui l’aiuto di una Europa lungimirante, che sapesse creare delle solide partnership nei settori in via di sviluppo, potrebbe rivelarsi determinante per far sì che la futura rendita petrolifera dell’Egitto non finisca nelle tasche dei soliti pescecani della politica e dell’esercito, bensì venga utilizzata per modernizzare e sviluppare le strutture industriali e civili di questo grande paese.

L’interesse dell’Europa è duplice: l’Egitto rappresenta una nuova mecca del petrolio e del gas, ma anche un mercato immenso di 100 milioni di consumatori che in gran parte sono ancora a livelli di mera sopravvivenza, ma che politiche sociali mirate potrebbero portare al livello dei consumatori turchi o iraniani. E, anche qui, un’Europa più presente potrebbe fare dell’Egitto un paese che trattiene i suoi abitanti invece che farli scappare oltremare.

La politica di dialogo con l’Africa cui accennava Hollande, del resto, non si può limitare all’Africa Mediterranea. Sappiamo che il grosso dei migranti dalla Libia proviene dall’Africa nera a sud del Sahara, dove pure non mancano alcuni paesi, come il Camerun o la stessa Etiopia, che di recente hanno mostrato un certo sviluppo a tassi crescenti. Pure qui si potrebbe replicare uno schema di interventi economici e sociali in cui l’Europa dovrebbe, nel suo stesso interesse, essere protagonista. Invece sappiamo che oggi sono altri gli attori: la Cina da tempo ha riscoperto l’Africa subsahariana facendovi investimenti massicci in agricoltura moderna, miniere e infrastrutture, e guadagnando in cambio accesso privilegiato a mercati in crescita e a materie prime estratte in loco. Di recente si segnala persino un interesse dei paesi arabi del Golfo, che stanno riorientando parte dei propri investimenti verso l’Africa nera.

L’Europa dovrebbe fare qualcosa di più di quello che ha sempre fatto in queste zone, ossia sfruttare giacimenti di diamanti e di materiali rari oggi richiesti dall’industria elettronica. Potrebbe farsi carico dello sviluppo più ampio di questi paesi da cui arriva una gran parte dei profughi che sbarcano in Sicilia, dopo avere attraversato il deserto sahariano e sperimentato le “cure” di poliziotti, profittatori e trafficanti di uomini di mezza Africa.

Forse a tutto questo pensava il buon Hollande, capo di un paese che, in virtù del lungo passato coloniale, ha certo una visione più ampia dei problemi e della posta in gioco nell’immediato futuro. Ma come far entrare questa nuova visione nella testa degli attuali premier e capi di stato europei, pressati da partiti populisti in crescita, che già si sentono la sedia tremare sotto le terga?

Però ormai c’è un’altra più grave domanda che s’impone: reggerà l’Unione Europea di fronte a queste molteplici sfide economiche e sociali in senso lato che hanno mostrato la profondità e l’ampiezza delle sue interne divisioni?

O dobbiamo attenderci già nei prossimi anni, come sotto sotto auspicato dall’ineffabile Donald Trump, una serie di altre piccole e grandi Brexit?