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QT n. 11, novembre 2017 Servizi

Catalogna, involuzione di un'autonomia

La tensione tra Madrid e Barcellona porta i riflettori sulle annose questioni tra Autonomie Locali e Stati Centrali, e sulle conseguenze pericolose dell’orgoglio reciproco.

Attorno al 2005, chiunque girasse per Barcellona non poteva che farsi rapire da quel mix tra cosmopolitismo e nazionalismo che si respirava tra le sue vie. Nel Barrio Gótico si parlavano tutte le lingue del mondo, ma il catalano imperava su vie, cartelli, e pubblicità a ricordare che nonostante tutti ci si trovava in Catalunya, prima che in Spagna.

La questione catalana, all’epoca, era una disputa quasi folkloristica, in grado di generare di tanto in tanto qualche polemica politica, magari per la sparata di qualche politico nazionalista radicale che desiderava mettersi in mostra, oppure in occasione del Clásico, il big match della Liga tra Real Madrid e Barcellona che da sempre, almeno due volte l’anno, infiamma la Spagna calcistica.

All’epoca l’attenzione era rivolta agli ultimi rigurgiti del nazionalismo basco a marchio ETA, che di lì a poco avrebbe consegnato le armi rinunciando alla lotta armata, con grande sollievo dell’intera popolazione spagnola. Poi, però, l’attenzione si spostò sulla Catalogna, da sempre soggetta a forti passioni, prima nazionaliste, poi indipendentiste.

L’Estatut del 2006 e la sentenza del Tribunale Costituzionale

Mariano Rajoy

Nel 2006 il Parlamento della Catalogna approvò un nuovo Statuto dell’Autonomia. Il testo originale, fra le altre cose, definiva la Catalogna come una “nazione” e assegnava al governo locale una grossa fetta di competenze, quali il potere legislativo (al Parlament) e quello esecutivo (alla Generalitat). La gestione delle imposte era demandata alla Agencia Tributaria de Cataluña, che avrebbe poi versato allo Stato una quota in relazione ai servizi erogati sul territorio, oltre ad una quota in regime di solidarietà con le altre Comunità Autonome. La competenza giudiziaria invece non poteva essere oggetto di decentramento e quindi restava in mano allo Stato centrale.

L’Estatut, approvato facilmente a Barcellona, doveva quindi ricevere l’approvazione del Senato, a Madrid.

C’era aria di ottimismo: alla Moncloa, che corrisponde al nostro Palazzo Chigi, risiedeva Josè Luis Rodríguez Zapatero, presidente del Consiglio, leader del PSOE (Partido Socialista Obrero de España). Il buon Zapatero, nella campagna elettorale del 2004, aveva promesso un occhio di riguardo verso la Catalogna e grazie al buon risultato elettorale ottenuto a Barcellona dal PSOE, intendeva mantenere la parola data. Ma l’Estatut, così com’era, non avrebbe trovato i voti in Parlamento. Alcuni articoli erano troppo sbilanciati a favore dei catalani: per dare un’idea, l’art. 6 prevedeva che l’Amministrazione Pubblica avrebbe dovuto usare come lingua preferenziale il catalano, pur dichiarando il castigliano lingua co-ufficiale.

Zapatero, tuttavia, voleva fortemente la mediazione assieme ai tre partiti catalani. Ne uscì un compromesso che venne accettato da buona parte dei nazionalisti (solo Esquerra Republicana, più radicale, rifiutò di firmare l’accordo e abbandonò il tavolo). Il Senato di Madrid approvò, a maggioranza, con l’opposizione del Partido Popular (PP)e degli altri partiti della destra.

A Mariano Rajoy, leader del PP, la definizione della Spagna come Nazione di Nazioni, risultante dal voto in Parlamento non andò mai giù. Per lui esisteva solo una nazione, quella con capitale Madrid, e al grido di “¡Viva España!” fece ricorso al Tribunale Costituzionale, ottenendo, nel 2010, risposta favorevole. 14 articoli dell’Estatut, derivante dal compromesso col governo Zapatero, vennero dichiarati incostituzionali. Bisognava ricominciare da capo.

La crisi economica del 2008 in Spagna ebbe conseguenze drammatiche: la disoccupazione si impennò e Zapatero pagò un elevato prezzo politico. Rinunciò a candidarsi, e nel 2008 Mariano Rajoy, leader del Partido Popular, prese il suo posto alla Moncloa. E la posizione del governo a guida PP sulla questione catalana fu molto diversa da quella tenuta dal predecessore: alle rivendicazioni catalane, che chiedevano di riprendere in mano l’Estatut non fu dato ascolto: il Tribunale Costituzionale aveva praticamente chiuso qualunque possibilità di mediazione, la sentenza era stata emessa, punto y final.

La rabbia catalana

La Catalogna è una delle Comunità Autonome più industrializzate di Spagna. Va da sé che sia anche una delle più ricche. Inoltre ha una lingua propria, il catalano, che deriva dalla lingua d’oc. È una lingua che si distingue nettamente dal castigliano, e pur avendo le medesime radici latine non può essere affatto considerato un dialetto locale, tanto da essere ammessa come lingua comunitaria. Per avere una idea, tra castigliano e catalano passa una differenza simile a quella tra italiano e ladino (che per certi versi assomiglia al catalano).

Questi due aspetti sono alla base della rivendicazione catalana.

Secondo la visione indipendentista, da sempre, e a maggior ragione in occasione della crisi del 2008, la Catalogna, industrialmente più sviluppata, ha svolto il ruolo di Bancomat per lo Stato Centrale, che ha poi dirottato preziose risorse per mantenere Comunità meno sviluppate e meno impegnate, come le più meridionali Andalusia o Extremadura, ricevendo in cambio ben poco, a livello di infrastrutture. A questo va aggiunta una malcelata percezione di superiorità della Catalogna rispetto alle altre Comunità di Spagna: ai lettori più attenti non sarà sfuggita una forte assonanza con le rivendicazioni del Veneto o della Lombardia, ai tempi della lega Nord di Bossi.

I centralisti ribattono che il carico fiscale catalano è correttamente proporzionato a quello delle altre Comunità. Semmai, i centralisti accusano gli indipendentisti di interpretare la storia a proprio comodo, o peggio ancora, di insegnarla a scuola, in una subdola forma di indottrinamento nazionalista (vedi box a fondo pagina).

Le ragioni centraliste

La Comunità Accademica, in una lettera aperta che sintetizziamo a pag. 26, ci dà un’idea delle posizioni di chi vuole mantenere l’unità del Paese. Si parte dal principio che la Costituzione spagnola, così come è oggi, non contempla l’ipotesi di secessione, men che meno unilaterale, da parte di una delle Comunità da cui è composta.

Di conseguenza qualunque rivendicazione in questo senso è cassata. Così è stato negli anni della lotta al terrorismo dell’ ETA e così continua ad essere nel caso catalano. Su questa base normativa si fonda la difesa dell’unità dello Stato da parte di Rajoy. Egli infatti ricorre sistematicamente al Tribunale Costituzionale, che non può che stare dalla sua parte. Il governo Rajoy, che normalmente sta in piedi grazie all’astensionismo del PSOE, gode, sulla questione catalana, del sostegno del resto del Parlamento, a parte, ovviamente, i partiti catalani. Podemos, partito cugino del nostrano Movimento 5 Stelle, inizialmente ha appoggiato la causa catalana, in forte critica ai metodi di Rajoy, salvo poi ritirare l’appoggio quando si è concretizzata la dichiarazione unilaterale di indipendenza, considerata illegale.

E poi c’è il re. Nel discorso trasmesso in TV, Felipe VI, condannando la deriva illegale in cui si è incanalata la questione catalana, ha di fatto sposato in pieno la difesa della Costituzione, il che è parte del suo ruolo di Capo di Stato.

Tale posizione, però, ha generato qualche polemica per due motivi. In primo luogo, per non aver fatto riferimento alle violenze che l’esercito spagnolo la Guardia Civil avrebbe commesso sulla popolazione inerme dentro e fuori dai seggi del referendum. Poi perché sposando completamente la posizione del governo, avrebbe rinunciato a quel ruolo super partes che dovrebbe competere al monarca.

Come si è arrivati ai giorni nostri

Il movimento catalanista non è mai stato rappresentato da un unico partito, ma è l’insieme di diverse anime che hanno preso a turno il sopravvento. Il dedalo di sigle, coalizioni, separazioni succedutesi nel corso della storia è complesso. Ma può essere sintetizzato in due macro-aree: gli autonomisti e gli indipendentisti.

Per lunghi anni ha prevalso la componente autonomista: in Catalogna almeno metà della popolazione proviene da altre regioni della Spagna, e le istanze indipendentiste hanno sempre avuto qualche difficoltà ad attecchire al di fuori della popolazione autoctona. Fu l’intransigenza di Rajoy a spingere progressivamente tra le fila degli indipendentisti un numero sempre maggiore di persone che prima si definivano semplici simpatizzanti dell’autonomia, tanto che alle due successive elezioni amministrative i partiti che proponevano l’indipendenza raggiunsero la maggioranza dei seggi nel Parlamento di Catalogna, portando all’elezione di Artur Mas nel 2010 e di Carles Puigdemont nel 2016 a Presidente della Generalitat, il governo della Catalogna. “Junts pel Sì”, la coalizione indipendentista che fa capo a Puigdemont, nel 2015 ha conquistato la maggioranza relativa nel Parlament con un 39,8% di voti, cui corrispondono 62 dei 135 seggi disponibili.

Queste due legislature evidenziarono una tendenza più esplicita verso l’indipendenza: dopo un primo confuso tentativo nel 2014, nell’ottobre del 2017 si tenne un referendum molto discusso (e annullato dal Tribunale Costituzionale spagnolo) sulla secessione. Il resto è storia di questi giorni.

Un’indagine pubblicata il 25 ottobre scorso dal quotidiano El País cerca di capire quali possano essere state le ragioni di questa accelerazione verso l’indipendenza negli ultimi anni. Secondo i dati elettorali, nelle ultime 12 elezioni amministrative in Catalogna non ci sono mai stati grandi travasi di voti tra i partiti non nazionalisti e quelli nazionalisti. Il risultato della somma dei partiti nazionalisti, ad esempio, ha sempre ondeggiato tra un 47 e un 48% del totale, contro il 52-53% della somma dei voti dei non nazionalisti.

Quello che invece è cambiato è la percentuale di persone che, nel corso degli anni, chiedono effettivamente l’indipendenza. Prendiamo in considerazione i votanti di due partiti indipendentisti, ERC (Sinistra Radicale Indipendentista) e l’ex CiU (Convergencia i Uniò), oggi PDeCAT (Partit Democrata Europeu Català).

Soffermandosi su PDeCAT, il partito di Puigdemont, più moderato rispetto a ERC, si nota come ci sia stata una impennata della richiesta di indipendenza da parte dei votanti di quel partito: dal 25% del 2011 si è passato al 69% del 2013, per poi proseguire fino al 73% odierno.

Di fronte a questi dati, El País fa due ipotesi. La prima è quella di un’accelerazione del processo di indipendenza per riprendere consensi elettorali, in seguito alla crisi economica. La seconda, di segno opposto, è che un sentimento indipendentista fosse latente tra gli elettori di PDeCAT e che la resistenza del partito stesso avesse fatto da tappo fino a un certo momento alle pressioni popolari.

La necessità di numeri

Carles Puigdemont

Capire qualcosa in questa situazione così aggrovigliata è un esercizio difficile: troppa l’emozione che traspare dai documenti, elevato il rischio di trovare informazioni passate di bocca in bocca o diffuse dai social, e quindi scarsamente affidabili. Insomma, il rischio di incappare nella bufala è sempre dietro l’angolo.

Gli stessi documenti che abbiamo preso in considerazione, pur nella loro solidità, non sempre ci hanno convinto: alcune informazioni vengono date così come sono, senza un dato, un numero che confermi quanto si sta sostenendo, quindi sono da prendere con le pinze.

Ed è proprio quello che manca alla questione catalana: i numeri. Numeri che dicano effettivamente quanti siano gli indipendentisti, quanti si accontenterebbero di una autonomia più spinta e quanti invece vogliono restare spagnoli. Numeri su cui si possano prendere decisioni.

Senza dati, è impossibile uscire dalla confusione.

Mentre gli indipendentisti ostentano di essere una maggioranza, facendo scendere fiumi di gente in piazza, resta ignoto il numero di coloro che restano a casa per l’unità della Spagna. Viceversa accade quando a scendere in piazza sono i centralisti.

Viene naturale condannare una dichiarazione di indipendenza unilaterale che, pur mantenendo un profilo non violento, si basa su numeri inconsistenti e soprattutto non democraticamente garantiti.

D’altro canto, Rajoy non può non riconoscere le responsabilità politiche sulla situazione che si è venuta a creare, nonostante la correttezza istituzionale che ha dimostrato. La risposta alle rivendicazioni catalane è stata benzina sul fuoco: lo Statuto del 2006, pur non essendo impeccabile dal punto di vista della costituzionalità, aveva il pregio di essere stato approvato dal Parlamento di Madrid e aveva garantito una risposta politica che ha messo in minoranza le istanze indipendentiste. E dopo la pronuncia del Tribunale Costituzionale, non c’è più stato seguito al dibattito.

C’è poi un aspetto, assolutamente non secondario, che va oltre i sentimenti nazionalistici o le questioni costituzionali, che dovrebbe far riflettere i promotori dell’iniziativa. La questione dell’economia.

Già diverse aziende catalane hanno cambiato sede legale, oltre a due importanti gruppi bancari quali la Caixabank e il Banco Sabadell, che si sono spostati rispettivamente a Valencia e ad Alicante.

Nonostante il PDeCAT (che sta per Partit Democrata Europeu Català), abbia inglobato l’idea di un europeismo in cui la Catalogna crede profondamente, l’Unione Europea non si è resa disponibile a riconoscere l’autoproclamata Repubblica Catalana, e senza l’appoggio europeo l’economia diventa insostenibile.

Si aggiunga poi che l’ingresso nella UE sarà possibile solo col consenso unanime dei Paesi membri, che verrebbe a mancare con l’ovvio veto di Madrid. Così com’è, la Catalogna sta fuggendo da un Paese che ha un peso politico in Europa molto rilevante per andare probabilmente contro un muro.

Allo scontro pubblico, poi, va aggiunta una piccola componente non trascurabile: ripicche personali, parlare in una lingua in presenza di persone che conoscono solo l’altra, infinite polemiche sui social network tra persone di diverse opinioni, violazioni del diritto di usare l’una o l’altra lingua rispetto alla amministrazione pubblica...

Il disagio della vita quotidiana che oggi si vive in Catalogna è forse la componente determinante dello scontro: saper restituire serenità ad una società stremata da questo scontro psicologico dovrebbe essere l’obiettivo per risolvere il problema una volta per tutte.

Indottrinamento catalanista: accusa e difesa

Nel maggio del 2017 è stata pubblicata un’indagine svolta da un sindacato di docenti catalani non indipendentisti sotto la sigla AMES (Acció per a la Millora de l’Ensenyament Secundari), con l’obiettivo di dimostrare l’esistenza di pratiche di indottrinamento indipendentista che verrebbe praticato regolarmente nelle scuole pubbliche catalane.

Il documento, di 50 pagine, consiste nell’analisi di alcuni brani, immagini e testi presenti in alcuni testi scolastici adottati nella scuola pubblica catalana.

Abbiamo letto il documento, trovando alcuni esempi discutibili di distorsione dei fatti storici. Per fare un esempio, quella che gli storici da sempre chiamano la Corona di Aragona (in latino Corona Aragonensis), che faceva capo alla famiglia dei Borbone, diventa in alcuni testi la Corona Catalanoaragonese. Tale denominazione non troverebbe, secondo il documento, alcun riscontro nei documenti storici, ma sarebbe più favorevole alla propaganda indipendentista.

In altri punti, in alcune trattazioni di geografia, viene presentata la Catalogna come entità separata dalla Spagna nel confronto con altre nazioni.

Altre esposizioni, invece, appaiono perfettamente legittime, e sarebbero al contrario indice di una certa inattendibilità del documento in questione. Sul tema della Guerra Civile, ad esempio, si accusano i libri di presentare questo evento esclusivamente come una contrapposizione tra buoni (catalani repubblicani) e cattivi (destra franchista): noi, onestamente, non ne vediamo il problema.

La conclusione dell’indagine è che strutturando in questo modo l’erogazione dell’istruzione, si favorisce la formazione di una identità esclusivamente catalana.

Inevitabili e roventi, le polemiche sono esplose in Spagna il giorno dopo la pubblicazione del documento. Da un lato è diventato il mantra dei centralisti, che da allora ripetono in Parlamento e sui social pedisseque litanie sull’indottrinamento nell’istruzione catalana. Dall’altro, i detrattori definiscono il documento come palesemente inattendibile, in quanto pieno di citazioni estrapolate dal loro contesto che avrebbero poca rilevanza. Secondo questi, nell’istruzione catalana non ci sarebbe nulla di irregolare, e il desiderio di indipendenza deriverebbe dall’indifferenza con cui Madrid si è sempre approcciata a Barcellona.

La visione della Comunità Accademica

Ci è stata recapitata in redazione una lettera aperta, firmata da un gruppo di europarlamentari spagnoli, e controfirmata da intellettuali, docenti universitari ed esponenti della cultura, tra cui il Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa e il filosofo Fernando Savater, in cui si spiega alla comunità accademica internazionale ciò che sta accadendo in Spagna.

Il documento può essere sintetizzato in alcuni punti fondamentali:

  1. La Catalogna è governata da una minoranza nazionalista che sta imponendo la propria volontà al resto della popolazione.
  2. Il Parlament catalano ha approvato norme per fare il referendum e per gestire il passaggio verso la costituzione della Repubblica Catalana, totalmente illegali.
  3. Alcuni settori dell’industria finanziavano illegalmente uno dei partiti nazionalisti: lo scandalo che ne è seguito ha coinvolto in prima persona l’ex leader nazionalista Jordi Pujol.
  4. La Catalogna gode già di ampia autonomia e non è vittima di alcuna spoliazione di risorse da parte del governo centrale.
  5. Fare appelli alla intermediazione e al dialogo, in questo contesto, significa chiedere al governo spagnolo di concedere disparità di trattamento di alcuni spagnoli rispetto ad altri di fronte alla legge.
  6. Si potrebbe avviare una riforma costituzionale orientata in senso federalista, entro cui esercitare una qualche forma di autodeterminazione. Ma i separatisti non hanno preso in considerazione questa ipotesi
  7. In occasione del referendum, le manifestazioni sarebbero state organizzatore da alcune associazioni separatiste con l’obiettivo di permettere ciò che la legge non permetteva. Con l’avallo della Polizia locale.