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Il vertice dei tre ex-imperi

In ascesa Russia, Turchia e Iran. In difficoltà Usa, Arabia Saudita e Israele. Agnello sacrificale, i Kurdi, malgrado il loro impegno contro l’Isis.

Ruhani, Putin e Erdogan al vertice di Sochi

Il vertice di Sochi del 22 novembre in cui Putin, dopo vari colloqui telefonici con Assad, il re saudita Salman e l’egiziano al-Sisi, ha riunito intorno a un tavolo il presidente turco Erdogan e quello iraniano Ruhani, ha il sapore di un revival storico. Gli eredi dei tre grandi imperi del Medio Oriente, il russo, il turco ottomano e l’iranico cagiàro, che fino alla Grande Guerra erano ancora i domini dell’area, si sono ritrovati in una sorta di piccola Yalta per decidere gli assetti futuri di una delle zone più calde del globo.

Facciamo un passo indietro per ricordare alcuni dati storici. L’impero Ottomano fino al 1915 controllava ancora tutto l’attuale Medio Oriente arabo e formalmente anche l’Egitto (benché da fine ‘800 il suo pascià, in teoria nominato dalla Sublime Porta, fosse in realtà un fantoccio degli Inglesi); con la guerra e l’accordo segreto Sykes-Picot (maggio 1916), francesi e inglesi si spartiranno alla fine della guerra le sue spoglie, stabilendo dei protettorati de jure o de facto sui nuovi stati (Siria, Irak, Libano, Giordania), in cui il nazionalismo arabo coronava la sua sete di indipendenza dal colonialismo turco-ottomano.

L’impero d’Iran retto dai Qajàr (o Cagiàri), pur in piena crisi morale e finanziaria almeno dalla metà dell’’800, ancora trattava alla pari con i vicini Ottomani, ma doveva accettare una sorta di alleanza forzata con la Russia degli zar che manteneva nel paese una brigata Cosacca - obbediente all’ambasciatore russo più che all’imperatore cagiaro - dalle cui fila uscirà quel Reza Pahlavi che abbatterà l’ultimo scià dei Qajar nel 1925 e instaurerà la dinastia dei Pahlavi (1925-1979).

La Russia, infine, era uscita vincitrice nell’Ottocento da due guerre con gli Ottomani: negli anni ‘50 (l’epoca della guerra di Crimea, cui il nostro Camillo Cavour partecipò con un piccolo corpo di spedizione piemontese per poter poi sedere al tavolo dei vincitori) e a metà degli anni ‘70, quando gli Ottomani persero quasi tutti i possedimenti balcanici.

A partire da queste due storiche grandi sconfitte si può inquadrare anche il genocidio degli Armeni, non motivato da questioni religiose quanto piuttosto da ragioni squisitamente politico-strategiche: gli Ottomani, temendo una terza devastante guerra con la Russia degli zar, danno via libera al progetto dei Giovani Turchi di sterminare gli Armeni, visti come quinta colonna del nemico russo e possibili loro governanti-fantoccio in caso di invasione e occupazione dell’Anatolia.

Con la Grande Guerra i tre imperi, come si sa, vengono cancellati: l’Iran cagiaro viene invaso dagli anglo-russi che ne fanno un co-protettorato fino alla instaurazione della nuova dinastia Pahlavi nel 1925; l’impero Ottomano, uscito sconfitto, vede l’Anatolia invasa da una coalizione di truppe greche e alleate, che saranno a fatica ricacciate indietro dal generale nazionalista Atatürk (1919-22), colui che fonderà poco dopo la Repubblica turca e porrà fine anche formalmente all’Impero della Sublime Porta; della Russia e degli sconvolgimenti che portano alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, e all’instaurazione della repubblica dei Soviet operai e contadini, non occorre qui dire altro perché sono fatti ben noti.

La rivincita

Soldati kurdi dopo la riconquista di Raqqa

Tutto questo è il passato. Oggi si può dire che i resti dei tre imperi riassaporano una piccola rivincita storica: sono sempre loro, Russia, Turchia e Iran, a decidere le sorti del Medio Oriente e, nel caso specifico, a incontrarsi al massimo livello per stabilire gli assetti del dopoguerra in Siria.

Due aspetti meritano qualche considerazione. L’Occidente del Patto Atlantico sta perdendo la Turchia, bastione Nato incuneato nel mondo musulmano. Questa Turchia, rifiutata dall’Europa della Merkel e Sarkozy e furente per la protezione data dagli USA a Fethullah Gülen, il leader religioso nemico numero uno di Erdogan (e accusato di stare dietro il fallito golpe in Turchia del luglio 2016), si è progressivamente riavvicinata a Putin e ora sprezzantemente segnala la sua distanza dall’America e dall’Europa.

È forse una posizione tattica, dettata dalle contingenze storiche e politiche? Probabile. La Turchia non è mai uscita dalla NATO, ma ha negato l’uso delle sue basi all’aeronautica USA impegnata nella guerra in Siria. Forse Erdogan vuole alzare il prezzo di un suo prossimo ritorno all’ovile, ma Putin in ogni caso ha colto la palla al balzo e sta abilmente sfruttando il risentimento antiamericano e antieuropeo della Turchia per tentare di portarla definitivamente nel suo campo.

L’altra considerazione riguarda l’emarginazione degli USA nel dopoguerra siriano. Gli USA hanno condotto la guerra siriana con molta incertezza e senza chiari obiettivi. Sicuramente si sono fatti trascinare dai loro alleati arabi sunniti (Arabia Saudita in testa) in un’impresa in cui tuttavia hanno avuto il buon senso di limitare il loro apporto al minimo, in sostanza appoggio aereo (bombardamenti chirurgici ) e logistico-finanziario (ai gruppi anti-Assad), ma non truppe sul campo, a parte l’intelligence e gli istruttori. L’esito di immagine è stato nondimeno catastrofico: presso l’opinione araba sunnita gli USA si sono mostrati alleati deboli, poco convinti e su cui non è possibile confidare fino in fondo.

Peggio ancora sul fronte dell’opinione pubblica interna: il malcelato appoggio sotterraneo al composito fronte anti-Assad in cui elementi jihadisti ed estremisti abbondano, ha proiettato una luce sinistra sulla politica estera americana, pronta a fare patti sottobanco anche con il diavolo jihadista, pur di accontentare gli alleati arabi sunniti.

L’Arabia Saudita da questo dopoguerra esce assai malconcia, avendo notoriamente fino all’ultimo cercato di sostenere lo Stato Islamico in funzione anti-Iran. L’Iran, lo spauracchio degli arabi sunniti, ne esce invece alla grande e con le spalle ben coperte da Putin in quella che appare ormai un’alleanza di ferro tra la Russia e il paese guida degli sciiti per il dominio del Medio Oriente, o meglio - come la cosa ormai si prospetta - per un condominio a tre tra Russia Iran e Turchia. La Turchia, fino all’altro ieri (ossia al golpe fallito) sponsor del fronte anti-Assad, ha dovuto fare buon viso dinanzi alla vittoria sul campo dell’asse russo-iraniano e ora cerca di salvare il salvabile.

Si sa che Putin e Ruhani, felici di aver strappato Erdogan all’abbraccio degli Americani, sono più che disposti a essere generosi sulla questione che sta più a cuore alla Turchia: il contenimento dell’irredentismo dei Kurdi. Questi ultimi sono stati i protagonisti (con gli aerei americani) di un’epica lotta contro l’ISIS, dall’assedio di Kobane sino all’ultima battaglia per la presa di Raqqa, e ora reclamano l’autonomia della zona kurda-siriana, così come avvenuto a suo tempo con le zone kurde dell’Irak.

La Turchia in effetti non può accettare di avere un’altra autonomia kurda ai suoi confini senza sospettare che questo riaccenderebbe l’irredentismo dei Kurdi di casa e del loro movimento PKK. L’Iran, che ha pure i suoi Kurdi duramente repressi tra il ‘79 e l’80 all’inizio della Rivoluzione Islamica, su questo punto è disposto a dare una mano a Erdogan. Del resto la Turchia ha qualche carta da giocare proponendosi ai futuri colloqui di pace come rappresentante dell’opposizione moderata a Assad, una parte della quale ha contribuito con i Kurdi alla liberazione di Raqqa. Ecco dunque l’agnello sacrificale sull’altare della vittoria russo-iraniana e della nuova piccola Yalta con la Turchia di Erdogan: l’autonomia del Kurdistan siriano, che logiche interne e internazionali non possono ancora permettere, almeno per ora.

Resta una domanda: l’America di Trump e i suoi inossidabili alleati dell’area (Arabia Saudita e Israele in testa) si rassegneranno davvero a questa sconfitta sul campo che segna l’ingresso a pieno titolo dell’Iran tra i domini del Medio Oriente? O non cercheranno di creare occasioni di rivincita e organizzare un contrattacco che sventi il progetto iraniano di proiettare l’influenza degli ayatollah dal Golfo Persico al Mediterraneo?

Il ruolo del Libano

I recenti eventi in Libano (presunto complotto saudita e dimissioni del presidente libanese, pare per ora congelate) ci dicono che qualcosa si sta muovendo. Netanyahu non perde occasione per gridare al pericolo iraniano e invocare una “spedizione punitiva”, magari a danno delle centrali nucleari di Teheran. Il Libano, che ha goduto un periodo relativamente lungo di pace bilanciando attentamente il potere interno tra sunniti, sciiti e cristiani, rischia ora, grazie alla vittoria russo-iraniana, di vedere crescere l’influenza già determinante della componente sciita, rappresentata dagli Hezbollah.

Un Libano in mano agli Hezbollah filo-iraniani, imbaldanziti dalla vittoria in Siria, sarebbe davvero un boccone indigesto… Proprio da Tel Aviv potrebbe venire la zampata che rimetterebbe in gioco tutta la situazione della regione, che oggi appare agli occhi di Americani, Sauditi e Israeliani definitivamente compromessa dalla vittoria russo-iraniana.

Il Libano diventa a questo punto la zona più calda per la sua contiguità con la Siria, ormai ridotta a un protettorato di Putin e Ruhani, e con Israele che certo paventa un Libano che costituisse la prossima preda dell’asse russo-iraniano. Ma Israele da sola non potrebbe mai ribaltare la nuova situazione geopolitica creatasi nel Medio Oriente, occorrerebbe che l’America e i Sauditi recuperassero almeno la Turchia di Erdogan. Il quale gode oggi strategicamente di una evidente rendita di posizione e, c’è da scommettere, sarà al centro nel prossimo futuro di grandi pressioni da parte di Trump e Putin.