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Non è facile essere insegnanti

Una scuola bistrattata, a cui però si chiede di svolgere sempre più compiti; un mestiere che resta comunque tra i più soddisfacenti; il dilemma di come premiare chi fa di più e il problema delle scuole di serie B, dove chi parte svantaggiato trova le condizioni peggiori. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Gianluca Argentin (a cura di Barbara Bertoncin)

C’è una dissonanza tra l’enfasi giornalistica su alcuni episodi di cronaca, e la normalità di un’istituzione fatta di 800.000 insegnanti (almeno), che quotidianamente entrano in classe e svolgono il loro lavoro. C’è una distanza inaccettabile tra la normalità di una macchina burocratica gigantesca in azione quotidianamente, mobilitando milioni di studenti e famiglie, e l’enfasi riservata a rari episodi eclatanti. Questi possono essere campanelli d’allarme, ma vengono amplificati finendo per offrire rappresentazioni sfalsate del mondo scolastico.

Sta di fatto che, in base ai dati raccolti, quella dell’insegnante è un’occupazione con un elevato livello di soddisfazione. Molti insegnanti si ritengono soddisfatti del lavoro che hanno scelto, più di loro coetanei in altre occupazioni simili per autonomia e grado di qualificazione. Gli elementi su cui si concentra l’insoddisfazione degli insegnanti sono quelli esterni al contesto scolastico, in primis la retribuzione. Un altro elemento problematico è che la scuola è sempre più investita di ruoli educativi ampi e di raccordo con altre agenzie sociali. Non è un male che i ragazzi sviluppino a scuola alcune competenze trasversali necessarie per stare al mondo oggi; anzi, è una necessità, per evitare che anche qui si riproducano disuguaglianze sociali. Oggi a scuola si impara però anche a scrivere un curriculum, a sostenere un colloquio di lavoro, a gestire i propri risparmi e così via, tutti ambiti estranei all’esperienza di molti docenti. L’esempio dell’alternanza scuola-lavoro è particolarmente pregnante. Chiedere agli insegnanti di creare un progetto educativo intorno all’accesso al lavoro, senza affiancarli con figure di supporto specializzate, significa scaricare su di loro una triplice incombenza: trovare tempo per svolgere questa attività; costruire proprie competenze e reti in un ambito estraneo al loro dominio usuale; farsi parte attiva nello sviluppo di competenze extra-scolastiche tra gli studenti. L’insegnante che segue l’alternanza si trova improvvisamente a dover contattare aziende, documentarsi sulla normativa, immaginare obiettivi e percorsi formativi, ecc. Il tutto, tra l’altro, senza incentivi di alcun tipo.

Richieste come queste sono un importante motore di cambiamento nelle routine, ma possono diventare anche fonte di malessere. Anche l’insegnante volenteroso, anche quello non rigidamente ripiegato sulla trasmissione tradizionale della propria disciplina, si ritrova in balia di qualcosa che mal governa, in cui deve spesso improvvisare e che lo costringe a un lavoro aggiuntivo senza nessun riconoscimento formale.

L’insegnante mandato allo sbaraglio a svolgere attività per cui non è attrezzato, può opporre resistenza a nuove sfide. Così nella scuola ci troviamo di fronte a insegnanti che riescono a smarcarsi da alcuni compiti trasversali, altri che si limitano a fare lo stretto necessario e altri ancora che invece si sacrificano e assolvono con spirito di servizio anche compiti per cui non sono equipaggiati.

Detto questo, il benessere dell’insegnante deriva dal fare un lavoro che spesso si è scelto e che negli anni si impara a padroneggiare, e poi dall’avere dei colleghi in una certa misura scelti anch’essi.

Non dimentichiamo infatti che gli insegnanti hanno uno spazio importante di scelta della scuola in cui insegnare. Quindi, c’è questo microcosmo dove certo si sconta uno stipendio più basso che in altre occupazioni, ma dove si hanno anche dei vantaggi, come ad esempio una flessibilità nella gestione oraria.

“Ora mi tocca fare anche questo”

Gli insegnanti italiani si caratterizzano per essere molto più anziani dei colleghi degli altri paesi e per essere molto più spesso donne. In un sistema come il nostro, dove il welfare continua a delegare i compiti di cura alle donne, avere un bacino di donne di mezza età come figura tipica dell’insegnamento, può essere problematico. Insegnare è sicuramente una occupazione funzionale per la conciliazione lavoro-famiglia, perché è un’attività pianificabile, con orari gestibili e modellabili sulla base delle proprie esigenze. Tuttavia, proprio il profilo dell’insegnante donna di mezza età caricata di compiti di cura impegnativi rischia di essere il meno adatto a fronteggiare le perturbazioni esterne. Infatti, molte insegnanti annaspano cercando di rispettare i vincoli temporali della doppia presenza, lavoro e cura, e facendo al contempo fronte al sovraccarico dell’istituzione scolastica. Non dimentichiamo poi la natura relazionale dell’insegnamento, che richiede la dedizione tipica di tutte le occupazioni di cura, con un carico emotivo aggiuntivo.

L’essere esposti alle classi di studenti quotidianamente è già un elemento di logoramento, soprattutto per gli insegnanti che perdono il senso della propria missione educativa. Poi ci sono i continui cambiamenti legati a riforme, richieste e progetti che giungono alle scuole. Accanto a tutto questo, c’è però un elemento intrinseco della condizione di insegnante, che può essere fonte di malessere.

L’insegnamento si caratterizza infatti come un’occupazione segnata da un’indefinitezza di fondo, di cui sono responsabili anche i sindacati. Esso, da un lato, presenta i tratti tipici del pubblico impiego, con una codifica molto stringente di orari e mansioni, con benefici chiaramente definiti, ecc.; dall’altro, gli insegnanti devono essere dei professionisti flessibili, in grado di rinnovare continuamente il proprio repertorio di pratiche e di far fronte al mutamento sociale e alle innovazioni organizzative. Insomma, da un lato abbiamo orari definiti, una precisa assegnazione a delle classi, con un obiettivo e una rigorosa scansione del lavoro; dall’altro, un mondo di altre attività non formalizzate, fuori da qualsiasi quadro di contrattazione. Agli occhi dello stesso insegnante diventa difficile capire cosa è parte o meno della propria occupazione. Frasi come: “Ora mi tocca fare anche questo” o “Ma io devo portare avanti il mio pezzo di programma”, segnalano una difficoltà a comprendere quale sia il proprio ruolo e quali i confini. In questo quadro indefinito, dentro le medesime scuole, abbiamo insegnanti che si fanno carico di compiti trasversali, che si improvvisano su mille progetti, accanto ad altri che invece si dedicano solo all’insegnamento. È come se ogni docente dovesse scegliere il proprio modo di intendere il suo ruolo. Riconoscere che esistono molti modi di fare l’insegnante e provare a formalizzare queste diverse competenze sarebbe un modo per sminare alcune fonti di malessere presenti oggi nella scuola.

A chi dare il bonus?

La questione della differenziazione, del merito, suscita sempre discussioni. Ma dalle ricerche degli ultimi anni emerge che gli insegnanti non sono contrari alla valutazione né alla differenziazione, anche salariale. Sono molto più aperti a un’idea di ridefinizione, anche sul piano contrattuale, dei loro ruoli rispetto a quanto lo siano i loro sindacati. Il nodo è come riconoscere gli elementi di differenziazione tra insegnanti, quali sono i fattori da considerare meriti, e con quale approccio affrontarli. Credo che il problema per gli insegnanti non sia l’essere valutati e diversamente organizzati e remunerati, ma il come questa differenziazione ha luogo. Da questo punto di vista, la “Buona scuola”, lasciando ai dirigenti l’assegnazione dei bonus, senza nemmeno vincolarli a una esplicita presa di responsabilità, è stato un passo falso. Se introduci un elemento di rottura importante, cioè l’idea che le differenze vanno riconosciute e premiate, lasciare poi il tutto in balia di un’estrema discrezionalità ed opacità rischia di generare malcontento. Non è nemmeno chiaro se il bonus che il dirigente dà sia un riconoscimento ad attività extra o anche a performance di qualità particolarmente elevata nell’attività ordinaria.

Se io sono un insegnante che fa benissimo il proprio lavoro di aula, che si documenta in modo da avere sempre il libro di testo migliore e si tiene aggiornato andando a convegni, che mette grande trasporto nella didattica, ho diritto o no al riconoscimento del buono? Questo è uno dei molti elementi che non è assolutamente chiaro, e ogni dirigente alla fine ha preso la propria decisione, il che va nella direzione opposta a quella di fare chiarezza sul ruolo dell’insegnante. Intendiamoci, trovo sia stato coraggioso introdurre un elemento di differenziazione tra gli insegnanti, si è rotto un tabù. Una scelta più coraggiosa, con la definizione di alcuni criteri guida, avrebbe reso però più trasparente il senso del bonus e contribuito a definire meglio cosa ci aspettiamo dagli insegnanti e su quali basi può esserci una differenziazione di ruoli.

C’è dibattito anche sul fatto se sia più efficace premiare il singolo o invece la scuola: dipende dall’obiettivo che ci diamo con la valutazione. Dalla letteratura di ricerca sappiamo che ambienti scolastici altamente collaborativi generano meccanismi di apprendimento reciproco. Se si fa formazione in una scuola in cui c’è un ambiente collaborativo, gli insegnanti si contaminano sulle cose nuove che hanno imparato e si danno reciproco sostegno. La collaborazione è cruciale e va preservata perché è un amplificatore di buone pratiche. Il problema è che nella scuola italiana un insegnante su quattro ogni anno cambia sede e in queste condizioni la collaborazione non è ai vertici delle priorità dei dirigenti scolastici. Paradossalmente, alla grande collegialità che esiste sulla carta (consiglio d’istituto, collegio docenti ecc.), corrisponde una bassa collaborazione effettiva. La stessa collaborazione non nasce sempre spontaneamente: c’è bisogno di figure che la promuovano e buona parte della dirigenza scolastica italiana ha avuto una formazione poco orientata alla leadership e molto più orientata allo specialismo burocratico. Complessivamente, siamo di fronte a un contesto poco favorevole alla collaborazione. In tale contesto, la valutazione mediante bonus individuale, senza aver vincolato tale riconoscimento a un beneficio collegiale per l’intera comunità scolastica, equivale a minare la già fragile collaborazione esistente, impiantando una logica competitiva fuori luogo.

Simile è, secondo me, la scommessa legata all’idea di promuovere competizione tra scuole. Non vedo benefici derivanti da queste forme di pseudo-concorrenza. Abbiamo bisogno di scuole collaborative al loro interno e tra di esse. Le sfide che si pongono ai singoli insegnanti e alle singole scuole non possono essere affrontate in una prospettiva individualistica e competitiva.

I tutor

L’ultima riforma ha introdotto dei cambiamenti importanti anche nella formazione iniziale, e qui il governo ha fatto una scelta in cui mi sono ritrovato. Il cosiddetto FIT (Formazione Iniziale e Tirocinio) prevede un percorso di formazione iniziale e poi di tirocinio che integra formazione teorica, accademica, con un’esperienza nella scuola, in cui l’insegnante è accompagnato da due tutor, uno accademico e uno scolastico. Il meccanismo prevede inoltre una piccola retribuzione dell’insegnante in formazione per il primo anno, che nel secondo anno può essere integrata facendo supplenza a scuola; nel terzo anno è previsto uno stipendio da supplente. Una sorta di lungo tirocinio guidato, di cui si sentiva la mancanza. Quello che preoccupa è che questa novità andrà a incastrarsi nel precariato storico della scuola italiana. Sotto traccia, in silenzio, si sta risolvendo parte del problema col concorso attuale, che di fatto è una sanatoria di proporzioni notevoli: si riduce il precariato pre-esistente, andando a introdurre nella scuola insegnanti che, nel concorso precedente, basato su una vera selezione, erano stati bocciati.

L’altra incognita è legata al ruolo del tutor. Si tratta di due figure importanti, almeno sulla carta. Occorrerà dunque investire nella loro selezione e formazione. Un buon tutor scolastico, una figura esperta nell’accompagnare i colleghi più giovani, che conosca i vari modelli pedagogici e didattici, ma anche l’organizzazione della scuola, è una figura di cui nella scuola si sente la mancanza. È un ruolo che potrebbe valorizzare gli insegnanti anziani, che magari sono bravi, ma in classe si sentono troppo “vecchi” rispetto agli allievi. Questa figura, da un lato potrebbe recuperare il ruolo degli insegnanti anziani che avrebbero una riduzione del carico d’aula a fronte di un ruolo trasversale; dall’altro potrebbe parzialmente risolvere una delle fonti di malessere: la bassa retribuzione a fine carriera. Si tratterebbe di riconoscere a questi docenti un compito aggiuntivo, da svolgere dopo una formazione ad hoc.

La soluzione a due problemi importanti, formazione in ingresso e avvio di percorsi di carriera, potrebbe quindi stare nell’investire risorse in questa direzione. Purtroppo non mi pare che ciò sia nelle priorità di nessuno, né dei sindacati, né probabilmente del nuovo governo.

Le disuguaglianze confermate

Tra le sfide poste agli insegnanti c’è anche quella di promuovere l’eccellenza senza venir meno alla missione egualitaria. Abbiamo un modello scolastico molto inclusivo, che promuove l’idea di un’uguaglianza di trattamento per tutti gli studenti. Il nostro sistema si caratterizza anche per i pochi vincoli formali nel corso degli studi: da noi puoi scegliere il tipo di scuola superiore o anche di università che preferisci, quasi a prescindere dalla tua performance scolastica. Abbiamo quindi una scuola che fa dell’inclusione e della libertà di scelta la propria ossatura. Il problema è che questo modello formalmente egualitario nasconde molteplici forme di disuguaglianza.

Vari studiosi hanno osservato i movimenti degli insegnanti tra una scuola e l’altra. Ci sono scuole da cui gli insegnanti appena possono scappano. Il problema è che così si stanno creando scuole di serie B, dove ci sono precari e insegnanti di passaggio, con inevitabili effetti negativi sull’apprendimento degli studenti. Uno dei problemi del nostro sistema di istruzione è la variabilità nei risultati delle scuole, soprattutto nel Sud.

Siamo di fronte a un abbinamento insegnanti-studenti iniquo? Cioè gli insegnanti che hanno avuto un brillante percorso di studi, che hanno un contratto a tempo indeterminato e via di seguito, vengono abbinati a studenti di tutte le estrazioni o sono assegnati più spesso a studenti privilegiati per origine sociale? Purtroppo i dati rivelano che spesso l’insegnante con più strumenti e potenzialità paradossalmente viene assegnato, anche per sua scelta, agli studenti che partono da una situazione di vantaggio. Come si dice, piove sul bagnato.

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Gianluca Argentin, sociologo dell’educazione presso la Cattolica di Milano, si occupa di politiche rivolte agli insegnanti e di valutazione di interventi in campo educativo.

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