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QT n. 5, 7 marzo 1998 Servizi

Un conservatore colto, una figura tragica

In memoria di don Rino Dallabrida, professore di assoluto rilievo nel Liceo Arcivescovile, immobilista e ultra-conservatore, degli anni '60.

In un recente seminario tenuto presso la Facoltà di Sociologia sul tema: "Spazio e tempo nell'ebraismo in rapporto alla modernità" il prof. Paolo De Benedetti, docente di Esegesi Biblica presso l'Istituto di Scienze religiose di Trento, riprendeva e approfondiva la distinzione tra tempo ciclico e tempo lineare.

Una distinzione che Filippo Gentiloni in un saggio di qualche anno fa incarnava nelle figure contrapposte di Abramo e di Ulisse.

E' l'ebraismo - sostengono i biblisti - che rompe la ciclicità e introduce con la Bibbia (con il passaggio cioè dall'oralità alla s(S)crittura) al tempo storico: l'evento diventa storia, punto di partenza che può essere commemorato, ma al quale non si ritorna.

Nella cultura greca invece il ritorno al punto di partenza e il ripristino dello status quo ante, magari attraverso una ciclicità avventurosa e tortuosa (tragica spesso e inesorabilmente disegnata dagli dei alla quale l'uomo non può sottrarsi), è una fatalità sanzionata dal volere divino.

Sono queste considerazioni che mi hanno aiutato a inquadrare e forse a capire l'insoddisfazione che la lettura delle commemorazioni anche abbondanti che la stampa locale ha dedicato alla figura di don Rino Dallabrida, ex preside e prestigioso insegnante di greco e latino al liceo classico dell'Arcivescovile recentemente scomparso, mi lasciavano dentro.

E non soltanto per una certa retorica di circostanza che pervadeva queste commemorazioni o per una manifesta deformazione operata dalla nostalgia della propria giovinezza di chi le scriveva. E nemmeno per la mediocrità degli estensori di questi elogi funebri di una persona che mediocre non era, anche se spesso la mediocrità del contesto finisce con l'esaltare oltre misura chi da quel contesto per una ragione o per l'altra ha le qualità per emergere.

Mancava, secondo me, la capacità di inquadrare questa figura nel contesto storico di questo secolo tragico che volge al termine (con il millennio), in cui lui è vissuto e in cui è stato chiamato a operare nel campo della cultura e della scuola.

Una figura anzitutto più temuta che amata sia dagli studenti che dai col leghi, anche se generalmente ammirata. Più che soggezione e senso d'inferiorità infatti riusciva a incutere un vero e proprio timore che nei momenti del rendiconto scolastico sconfinava volentieri nel panico. Chi scrive ha constatato, parlandone in questi giorni con altri per stendere queste note, di non essere il solo ad avere ancora negli occhi e nel naso le zaffate dei toscanelli che all'esame di quinta ginnasio contribuivano a rendere nebulosa la memoria oltreché la vista e l'olfatto e a togliere più che a donare lucidità in circostanze in cui il rapporto esaminatore-esaminato è decisamente sbilanciato, privo di difese e di garanzie.

Così come non si può dimenticare la sua preferenza spiccata per gli "aristoi" (i più bravi), che lo portava addirittura qualche volta a cancellare dalla memoria gli alunni scolasticamente modesti o che negli esami e nella vita non si erano piazzati in modo da far ricadere sull'istituzione scolastica da cui provenivano quel prestigio che era sempre al vertice delle preoccupazioni di quell'ambiente scolastico di cui lui era magna pars.

Ma il problema va al di là di queste particolarità in parte caratteriali in parte dovute all'ambiente e alla convinzione di adempiere a un compito che gli era stato affidato, quello cioè di formare una classe dirigente trentina, plasmata secondo un'identità da conservare e perpetuare (l'Arcivescovile come "il seminario dei laici") in consonanza col clero.

Va sottolineato, per inquadrare anche il problema del finanziamento pubblico alle scuole private ritornato di attualità, che, caso forse unico in Italia, l'Arcivescovile di Trento è affidato al clero diocesano e non, come in tutte le altre situazioni di scuole private confessionali, a una congregazione religiosa canonicamente indipendente dall'ordinario diocesano. Io sono convinto che se si vuoi rendere giustizia a questa figura di insegnante e di prete, colto ben oltre la media riconosciuta a un normale insegnante di liceo, di quelle figure cioè in grado di plasmare e di lasciare un'impronta significativa negli alunni delle varie generazioni che si susseguono, ai quali riusciva a trasmettere nozioni non soltanto filologicamente corrette, ma una concezione della vita e del mondo complessiva, non ci si può fermare alla superficie né alle parole di circostanza.

La preparazione culturale di don Rino Dallabrida, il suo orizzonte di riferimento e la sua griglia interpretativa della realtà attingevano decisamente assai più alla grande cultura greca di cui era esperto che alla parola di Dio scritta nella Bibbia che certamente non ignorava. (In buona compagnia peraltro, dal momento che S. Agostino fa i conti con Fiatone e S. Tommaso li fa con Aristotile, e i manuali di teologia che da questi ca-postipiti derivano e che formavano il clero negli anni del seminario, cercavano poi nella Bibbia le conferme ex Sacra Scriptum delle loro tesi, e se le trovavano bene e se no era lo stesso).

Ma, per ritornare alla distinzione del tempo cica del nuovo o dell'innovazione non può che cadere nel vortice della hybris (che oggi, sia pur riduttivamente, si potrebbe tradurre con "arroganza del potere") e perciò stesso non può che essere destinato alla riprovazione divina e alla perdizione. E se la riprovazione era divina, non poteva che comportare anche la sua riprovazione di prete e di studioso.

Una concezione del mondo e della vita in cui Eschilo e il suo Serse, che torna sconfitto e lacero alla corte di Susa ne "I persiani", pesa assai di più dell'"Esodo" e di Mosè che dall'alto del monte prima di morire saluta da lontano la terra promessa verso la quale ha faticosamente trascinato per quarant'anni un popolo riluttante.

In un uomo colto vissuto in questo secolo convinto che nulla di nuovo accada sotto il sole e convinto che la ricerca del nuovo e del mutamento sia moralmente e teologicamente destinata alla riprovazione divina, questa convinzione non può non assumere un'aura di tragicità, anche se per certi versi un po' patetica, specie quando al nuovo cerca addirittura di opporsi. Nella stessa fedeltà proclamata e ostentata all'istituzione ecclesiastica, quando questa si mette seriamente a fare i conti con il mondo contemporaneo non per estraniarsene ma per capirlo, don Rino si schiera con la conservazione preconciliare, in attesa che tutto torni nel solco del "già visto", ignorando la dimensione storica del tempo che in tante occasioni ha dimostrato quanto le restaurazioni, al di là dei proclami, non siano mai il ripristino dello status qua ante, ma, paradossalmente, delle forzature che innovano, che assumono cioè la novità piegandola strumentalmente ai propri fini.

Un equivoco reso possibile anche da un moralismo un po' sessuofobico funzionale alla borghesia rurale e urbano/clericale che affidava i propri rampolli a quest'istituzione scolastica rassicurante, per perpetuare il proprio orizzonte culturale e la propria collocazione nell'area del privilegio e della distinzione sociale. Non potevano ovviamente che alimentarsi a vicenda quest'area sociale e quest'istituzione scolastica, alleati nell'ostilità al mutamento da cui temevano di avere solo da perdere, e sodali oltre che riconoscenti per un'elaborazione della conservazione colta e fondata nel sacro cristiano e precristiano con risultati palpabili di conformismo paludati di cultura alta.

Ma tutto questo non è bastato né per impedire il mutamento che nei decenni della seconda metà di questo secolo ha assunto anche da noi ritmi vorticosi e dimensioni macroscopiche e nemmeno per isolarsi da esso in attesa di un successivo ripristino di una situazione antecedente, di cui peraltro non sono mancati e non mancano segni e sogni velleitari e illusioni restauratorie.

Un giudizio negativo sul mutamento, una fattiva opposizione e un conclusivo estraniarsi da esso con dispetto, non bastavano però per sottrarsi all'angoscia diffusa di una crisi d'identità che intaccava l'istituzione ecclesiastica, le singole persone e la società nel suo insieme. Tanto più in una situazione in cui la stessa Chiesa tenta di rapportarsi al mondo contemporaneo non necessariamente per seguirne le mode e le derive, ma per cercare di discernerne quanto è collocato nel maligno e quanto invece non contribuisca a rendere visibile, plausibile e alternativo magari il messaggio evangelico.

E' così che questa figura di prete, d'insegnante e di uomo di cultura finisce con l'assumere una dimensione di sconfitta, di collocazione in una marginalità sempre più insignificante, che da alla crisi d'identità di cui è quasi incarnazione i tratti della tragedia.

E 'Che lui abbia avuto qualche barlume di questo mi è parso di riscontrarlo nelle parole del suo testamento riportate in una delle commemorazioni ospitate dalla stampa locale, in cui, con atteggiamento di umiltà che gli fa onore, dice di rifarsi alla figura di prete che vede realizzata nel suo amico d'infanzia e di paese con cui ha condiviso anche gli ultimi anni della sua lunga vecchiaia: don Guido Bortolameotti.

Una figura cioè che pur avendo occupato elevati posti gerarchici e di responsabilità nella Chiesa diocesana, non ha mai perso il contatto con la realtà quotidiana e modesta del clero di base e delle vicissitudini in cui era chiamato a vivere e a operare in questi decenni vorticosi di mutamento. E da questo mutamento interno ed esterno alla Chiesa, che forse ha subito ma che non ha mai negato, ha saputo trarre la conclusione - come ama dire nelle riunioni anniversarie di clero a cui è invitato a partecipare - che le cose che contano alla fine sono poche e che si riassumono in una rinnovata e rinnovantesi capacità di amare. Il resto è caduco e la storia spesso lo riduce al sapore delle cipolle d'Egitto che peccaminosamente il popolo ebreo rimpiangeva nei lunghi anni di peregrinazioni nel deserto, tentato dalla ciclicità di un ritorno alla schiavitù.

Sono convinto che don Rino Dallabrida riposi in pace nella raggiunta collocazione a lui congeniale al di là della storia.

Nella storia infatti e della storia forse non ha saputo cogliere le dinamiche che gli hanno reso la vita assai più corta della biologica longevità.

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