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QT n. 6, 21 marzo 1998 Scorribande

Manzoni pompiere dell’eros

Perché "I promessi sposi" non piacciono ai lettori stranieri?

Colangelo Giuseppe

I francesi non hanno mai amato e non amano "I promessi sposi". Lo sciovinismo non c'entra per niente. Tanti altri libri della letteratura italiana hanno trovato da loro accoglienza entusiastica e fortunata. "I promessi sposi", purtroppo, no. Si fa fatica a farlo accettare.

Beniamino Placido, antico e appassionato estimatore del capolavoro manzoniano, prendendo l'aire dal recente tentativo dell'editore Gallimard (una traduzione nuova di zecca accompagnata dall'autorevole introduzione di Giovanni Macchia), spera che le cose possano finalmente cambiare. Spera, ma nel contempo ragiona sulle possibili cause della riluttanza dei transalpini (Cfr. la Repubblica del 17 gennaio '96). E le individua nel fatto che "I promessi sposi", pur presentandosi come un romanzo, in realtà non lo sono. Perché l'autore invece di lasciare spazio al libero gioco delle passioni (che del romanzo - specie di quello ottocentesco - sono gli ingredienti fondamentali), sceglie di raffreddare, di disinnescare, di spegnere.

Nel romanzo, infatti, ci sono almeno tre storie passionali e "potenzialmente appassionanti", quella della possibile vendetta di Renzo su don Rodrigo, quella d'amore tra Renzo e Lucia e quella "gotica" della tenebrosa monaca di Monza. Ebbene come si comporta Manzoni?

Nel primo caso fa intervenire la Provvidenza, nel secondo elimina qualsiasi effusione (non un solo bacio tra i due), nel terzo glissa chiudendo con "La sventurata rispose ". Ma così facendo frustra le attese del lettore, che dopo essersi ingollato seicento pagine ha la netta e giustificata impressione d'aver letto un "trattato sulla disciplina delle passioni", più che un romanzo. E questo per i francesi, che possono vantare autentici maestri del plot avventuroso, è forse davvero troppo.

Fin qui Placido, che in ultima analisi, nonostante il tono bene augurante, appare abbastanza scettico sull'esito della meritoria operazione gallimardiana. Chi scrive - si parva licet... - lo è molto di più. Non certo perché possieda nefaste virtù divinatorie o si auguri il flop, quanto perché ricorda bene un vecchio divertentissimo saggio di Alberto Arbasino ( "Solo per te, Lucia", in "Certi romanzi", Einaudi, 1971), dalla cui lettura si esce definitivamente convinti delle scarse chance di Manzoni fuori dai confini delle patrie lettere.

Ecco allora, a mo' di stuzzichini, alcuni passaggi di quelle pagine memorabili: "Renzo è un pancotto privo di personalità come quegli attorgiovani che fanno un film e poi vengono licenziati dal produttore per mancanza di carisma, e inoltre privo di sessualità come i tenori di 'Sonnambula' o dell"Elisir d'amore'. Bravissimo ragazzo, canta qualche aria, partecipa a duetti, terzetti, concertati, e a scene di massa; ma nessuno crede sul serio a una sua qualsiasi possibilità erotica. La sua mancanza di passato e di futuro su tale terreno (e in un romanzo che mette gli sposi nel titolo e impianta una piccola tragedia sulla circostanza che non riescono a sposarsi) è molto probabilmente la ragione per cui i lettori stranieri refrattari alla magia stilistica trovano illeggibile o incomprensibile il romanzo manzoniano".

Quanto a Manzoni, egli era assolutamente consapevole dei rilievi che gli sarebbero stati mossi proprio in questa direzione. Ne era cosciente a tal punto che affrontò subito l'argomento nel "Fermo e Lucia". Qui (tomo II, cap. I) con un procedimento stilistico che gli era molto caro - la digressione - e di cui era geniale maestro, si inventò un interlocutore assai critico nei suoi confronti.

Costui, senza tanti preamboli, lo accusa di aver negato ai due "infelici giovani" qualsiasi concreta effusione amorosa e Manzoni ribatte che, al contrario, l'opera "trabocca di queste cose" e che esse costituiscono anzi "la parte più elaborata " del romanzo. Solo che - continua lo scrittore - al momento della trascrizione e del rifacimento, lui salta "tutti i passaggi di questo genere ", e aggiunge che lo fa perché condivide l'opinione di chi sostiene "che non si deve scrìvere d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione". Insomma, conclude Manzoni, l'amore è necessario ma già ce n'è quanto basta e non occorre che "altri si dia la briga di coltivarlo" e di "andarlo fomentando cogli scritti".

E quando l'antagonista - dopo avergli dato del retrogrado e del pinzochera - gli fa notare che così facendo uno scrittore perde tutti quei lettori - e sono la maggior parte - che a un romanzo chiedono divertimento, Manzoni imperturbabile risponde che lo scopo della letteratura non è di divertire "quella classe d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi " e che se fosse quello lui cercherebbe un mestiere più dignitoso.

Ecco serviti i lettori stranieri.

Noi italiani per gustarci la "magia dello stile" dovremo continuare a sorbirci quel "pancotto" di Renzo e quel triangolo isoscele di Lucia.

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