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La paura dell’uomo nero

Come si insegna il razzismo ai bambini. Da "Una Città" mensile di Forlì.

Nei temi sui quali si basa la ricerca, si delinea spesso una situazione ossessiva, quasi allucinatoria in cui regna il tutto nero.

Questa paura arriva a espressioni totali, senza confini: un ragazzino della provincia di Arezzo la comunica nel suo tema di una sola frase: "Se i miei genitori fossero neri, avrei paura per sempre". Altri arrivano con questa angoscia a scrivere testi molto densi. Ma nella paura compaiono anche riferimenti provenienti da quello che i bambini hanno appreso a casa o a scuola dai fumetti o dalla televisione. A partire dal vecchio spauracchio tradizionale dell'uomo nero che ti porta via, fino alle dicotomie di bianco come puro e buono contro nero-diavolo-inferno-punizione, e all'idea dei neri come ladri o gente che uccide.

Il disagio di fronte al toccare o essere toccati io l'ho sentito tante volte anche da parte di adulti. Alcuni dei miei studenti dicevano che all'idea di toccare le mani o di un semplice contatto con un africano si ritraggono: "E'una reazione che non so proprio trattenere " ha detto qualcuno di essi. Certo non è facile che un adulto lo ammetta, però con gli studenti si è qualche volta parlato della loro stessa paura o forte disagio, di come per strada o al supermercato a volte involontariamente si irrigidiscano se si trovano degli africani vicino. E' ovvio che piuttosto che colpevolizzarsi si tratta di capire dove siamo e per quale percorso siamo arrivati a essere così. Per questo è importante studiare la trasmissione del razzismo ai bambini, perché questi sentimenti diventino parte di sé molto presto, attraverso l'educazione a scuola e a casa e attraverso i tanti segnali verbali e di comportamento, di gesti anche minimi, che i bambini decodificano e semplicemente leggono crescendo in questa società.

Prendiamo la reazione di "schifo". A un bambino viene in mente questa idea di fronte all'ipotesi di genitori neri: "Oh, che schifo!". Ed ecco che diversi altri compagni nella classe la riprendono e magari la discutono. La ripetizione, l'imitazione rivelano quella che è comunque un'idea latente, che può casualmente affiorare oppure no. Il bambino che esprime una reazione di schifo certo non scopre lo schifo in quel momento; e ugualmente un altro magari non lo dice ma potrebbe farlo. Insomma, la reazione di schifo è una delle modalità possibili del discorso collettivo, del pensiero comune sugli "altri".

Nel libro racconto il caso paradigmatico di una bambina che passa da una situazione di affetto e fiducia per una bambina africana più grande, con cui si trova alla scuola materna, ad essere terrorizzata di fronte alle persone nere che incontra per strada. E questo avviene proprio dopo che le maestre d'asilo hanno costruito a scuola un villaggio africano con nel mezzo il calderone dei cannibali. Le maestre si giustificano: "Ma si è fatto così, per ridere ".

Del resto i calderoni li ritroviamo nelle vignette, anche in Topolino a volte, con la solita vecchia iconografia, così simile a quella delle vignette di epoca fascista che si sono riviste nella mostra "La menzogna della razza": in cinquant'anni lo stereotipo non è cambiato. Così una volta su Topolino, una volta alla TV o in un film e alla fine nessuno ci fa più caso ma le rappresentazioni negative incidono in modo determinante nella formazione stessa dei ragazzi.

Tempo fa, in una puntata di "Porta a Porta" mi sembra, si parlava tra l'altro di cucina, di risotti se per un dato risotto ci volesse il vino bianco o rosso, e D'Alema se ne uscì scherzando: " Ma no, quelli non avevano il vino giusto, sono degli zulù! ". E più seriamente può accadere che un'insegnante elementare a Cosenza rimproveri così i bambini quando ci sono cartacei per terra: "Ecché siamo in Africa?!". "Non siamo mica dei baluba " o frasi analoghe sono comuni, dette per scherzo o no.

E' come con il sessismo: quanto tempo ci vuole prima di capire e cogliere una serie di riferimenti senza esserne disturbati? Che ci diventino intollerabili? E' proprio con tutti questi input, certo differenti di peso, tono e intenzionalità, che gli stereotipi si riproducono, le distanze aumentano.

In tutto questo trovo inquietante oltre alla non consapevolezza, quel diffuso atteggiamento che con idee tipo "accettiamo lai diversità", "la diversità è ricchezza", etnicizza e tribalizza gli altri. Succede ad esempio che le scuole chiedano a mediatori culturali, di essere totalmente folkloristici, di parlare di capanne, villaggi, tradizioni, insomma dell'Africa "primitiva". Suonare percussioni va bene, i costumi vanno bene, ma non la reale vita che si conduce nelle città africane, quella non interessa. Ossia c'è una produzione costante di "etnicità" che fissa gli "altri" nella diversità.

Creare gli "altri" ha storicamente avuto come esiti finali l'apartheid o l'eliminazione. Ritrovo anche nei temi le tracce di questi percorsi. Ma non solo nei temi. L'idea di apartheid non è affatto rara e, cosa incredibile, può essere sostenuta dalla destra alla Le Pen e insieme espressa con la più totale innocenza, per così dire, in una specie di idea di "rispetto delle diversità". Così di recente (Corriere della Sera, supplemento "lo donna", 13 febbraio 1998) una scrittrice per l'infanzia è andata a parlare con i bambini di una scuola elementare milanese e ha chiesto loro di immaginare come organizzare una città internazionale del futuro (ossia di elaborare, secondo l'articolista, un "progetto urbanistico multirazziale ").

"Facciamo un quartiere per ogni razza e poi li dividiamo con i confini"; o ancora: "Una città con tanti quartieri, ognuno con le sue abitudini. Un quartiere inglese, uno americano, uno cinese, uno italiano. Separati ma collegati con il metrò ". Tralascio il commento della scrittrice che non sembra rendersi conto del significato delle risposte che ha stimolato. I bambini poi pensano di aver avuto una idea brillante, tollerante e non razzista. Anzi alcuni farebbero un quartiere separato per i razzisti.

Ugualmente, io continuo a rimanere sbalordita di fronte a certe pubblicazioni per bambini, carine e innocue a prima vista, ma che certo contribuiscono a costruire nei più piccoli cliché disastrasi. Un'amica antropologa mi ha mandato un recentissimo libretto cartonato che vuole insegnare ai bambini di 3-4 anni a colorare le figure. Il libretto proponeva degli "africani da ritagliare e vestire" con tutto il loro corredo: lance scudi, "l'elefante su cui farli viaggiare", capanne, una scimmietta (con cui dormire!), altri animali selvatici e una donnina trasportata da un coccodrillo.

Ovviamente, gli autori non credono che in Africa si viaggi su coccodrilli, e pensano di fare una cosa simpatica e vendibile, ma tanto per cambiare rieccoti per i bambini, in forma edulcorata, dei primitivi totali che vivono di caccia in un'Africa di natura. A volte, quasi stento a crederci: sembra che proprio non si veda niente. Ci si accontenta di un antirazzismo di maniera, di un buonismo antirazzista.

Quello che risulta dalla mia ricerca sono idee, la cui espressione particolare è dei bambini, ma la cui matrice sta in ciò che viene loro proposto ed insegnato dalla nostra cultura e non da reazioni o paure istintive di fronte ai "diversi", non da un rifiuto spontaneo.

Non si tratta perciò di pulsioni originarie e selvagge, che solo la cultura può tenere a freno. Al contrario, si tratta di disimparare qualcosa che la nostra società, con la sua cultura dominante, ci ha insegnato.

Nei ragazzi c'è insieme l'accanimento sul colore e poi il chiaro segno che il colore non è solo colore della pelle, ma la metafora del rapporto sociale. Neri nei temi possono essere, non solo gli africani, ma iracheni o albanesi, bosniaci o marocchini. "Neri" sono gli altri, quelli che possiamo sbattere fuori dai confini o a cui offrire condizioni di lavoro non proponibili agli italiani e agli europei. Così un ragazzino calabrese di quarta ha una straordinaria definizione sociologica del colore: "I neri nascono di tre razze di pelle: nera, gialla o bianca ".

Nei testi dei bambini si possono leggere le idee che circolano nella società con le loro stratificazioni e contraddizioni. A volte capita anche di poter individuare in modo più preciso il terreno specifico da cui vengono le idee. Riferimenti all'appartenenza religiosa cattolica e alle idee di uguaglianza come "figli di Dio", ad esempio, compaiono con una certa frequenza. E insieme, in questi temi spesso vengono fuori le discrepanze tra queste dichiarazioni e la realtà dei comportamenti che osserva. Tutti fratelli? Ma come? Cosa mi raccontate?

In un unico caso invece è dichiarata l'appartenenza politica: "Io sono un bambino comunista " e in fondo al tema una falce e martello. L'autore viene da una zona di Roma a prevalenza comunista, dove c'erano le case dei tramvieri. Eppure, anche questo ragazzo che parte deciso in senso antirazzista, pian piano integra nel suo discorso tutti gli stereotipi razzisti contro gli immigrati: violenza, droga, rubano il lavoro, spargono malattie... E questo è uno dei dati che vengono fuori dalla ricerca: il razzismo si muove in modo trasversale rispetto ai riferimenti ideologici.

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