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QT n. 21, 5 dicembre 1998 Servizi

Un’Italia diversa: una Costituzione da cambiare?

Dal dopoguerra ad oggi: la nascita della Repubblica e i mutamenti di oggi. Un convegno organizzato dall'Istituto Gramsci.

A desso proprio perché la storia è finita, e la rilevanza dello scontro fra comunisti e anticomunisti si è esaurita come motore dell'azione politica, possiamo gettare nuova luce sull'inizio.

"La nascita della Repubblica. 1943-1948. Identità e memoria storica", è il tema affrontato a Trento in un ciclo d'incontri dell'Istituto Gramsci del Trentino Alto Adige, nei quali il confronto fra passato e presente, sotto il segno dell'analogia e del contrasto, è stata la chiave per approfondire la conoscenza di noi stessi.

L'uso della storia contemporanea a fini politici è inevitabile, non scandaloso - ha affermato Luisa Mangoni - anche perché il giudizio sul passato immediato è, per un giovane soprattutto, il modo più serio per formarsi una coscienza politica - ha aggiunto Claudio Pavone. Insegnare la storia è per un verso mettere ordine nel disordine degli eventi, in altre parole semplificare, ma per un altro verso lo storico si comporta da guastafeste, che complica e moltiplica le spiegazioni. Per questo l'insegnamento della storia contemporanea a scuola ha sempre suscitato polemiche, non solo oggi, che abbiamo a che fare con il Novecento, ma anche quando si trattava di storia del Risorgimento, per la quale ci volle anzi più tempo per abbattere le barriere delle aule e insediarsi fra i banchi.

La memoria rimane, infatti, ancora oggi divisa sul Fascismo e sulla Resistenza, persino sull'attentato partigiano di Via Rasella e sulla rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine, come il processo a Priebke ci ha dimostrato. Ogni partito del CLN, negli anni della guerra fredda, ha rivendicato della Resistenza quella parte d'eredità ad esso più utile e congeniale. Accompagnata ad una gran voglia di dimenticare: fu difficile, per un intellettuale che era stato fascista, e poi era approdato all'antifascismo, far convivere le due esperienze dentro di sé. Elio Vittorini ricorse alla formula dell' "essere stati fascisti in maniera antifascista ", mentre Piero Calamandrei vide nell' "uomo qualunque " proprio la volontà di cancellare una memoria imbarazzante.

Nella Germania divisa dalla guerra fredda, la divisione della memoria - ha affermato Gustavo Corni - produsse interpretazioni del nazismo simmetriche e contrapposte: nell'Est comunista antifascismo è sinonimo di comunismo, per cui la Germania occidentale appare l'erede del nazismo hitleriano; nell'Ovest capitalista il nazismo, ridotto a totalitarismo, è assimilato al comunismo invece che apparire il suo storico avversario. Ci vorrà il disgelo degli anni Sessanta perché gli storici incomincino a studiare il fenomeno senza le certezze del pregiudizio politico.

Durante la recente campagna elettorale in Trentino, in un documento interessante, un gruppo di intellettuali cattolici, da Silvano Zucal a Michele Nicoletti, da Alberto Conci a Michele Dossi, ha motivato il proprio voto ai Democratici di sinistra, e ha nel contempo rivendicato la giustezza e il valore dell'anticomunismo passato. Rivendicazione legittima, e sottolineatura opportuna, per prendere e dare coscienza che il voto a sinistra, ancora così difficoltoso e ristretto in Trentino, viene da sorgenti diverse, e a lungo non comunicanti.

Eppure all'origine - questo il senso della relazione di Mario Dogliani - quelle forze, nell'Assemblea Costituente, si fondavano su principi condivisi realmente, e non su mediazioni al ribasso, fra fini e realtà, fra promesse e rinunce. La memoria del passato è comune, e comune la coscienza del compito cui la storia le chiama: si fatica a distinguere un discorso di Togliatti e di Basso da quelli di Vittorio Emanuele Orlando, Dossetti, La Pira, Calamandrei. L'articolo che vieta la revisione della forma repubblicana dello Stato è scritto addirittura dal monarchico Lucifero. Ci si ascolta con serietà, fino a trovare l'accordo attorno alla centralità del Parlamento come organo rappresentativo, e a dare un comune fondamento naturale ai diritti del cittadino, in termini metafisici per i cattolici, storici per i marxisti, pre-statuali per tutti.

Dalla consapevolezza che il popolo italiano era vinto, che l'identità dello Stato era fragile e di breve durata, venne ai nostri costituenti un forte senso di responsabilità, la volontà di darsi reciproche garanzie per il futuro, mentre nel presente agivano sotto il "velo dell'ignoranza", senza preconoscere la loro consistenza effettiva.

In Francia invece la spaccatura fra le forze della Resistenza è grave, e travagliata la scrittura della Costituzione, approvata infine con un consenso ristretto, ma foriero di crisi continue fino al ritorno del generale De Gaulle - ha spiegato Sandro Guerrieri.

In Germania, occupata e divisa, la "legge fondamentale" approvata è vissuta come "condizionata" dalle pressioni dei vincitori, soprattutto americani, e "provvisoria", in attesa della riunificazione pensata vicina: i diritti sociali, cardine della Costituzione di Weimar del 1919 - ha affermato Gustavo Gozzi - non sono costituzionalizzati, ma lasciati al legislatore ordinario.

Maurizio Fioravanti ha invece dimostrato la centralità dell'articolo 3 della Costituzione italiana: la questione sociale da pratica politico amministrativa acquista rilevanza costituzionale e diventa i "diritti sociali". Il lavoro, la salute, l'istruzione, la previdenza, cessano di essere questioni private, ed entrano nel patto fondamentale di stabilità. La Costituzione è "ciò che resta" nel cambiamento di maggioranze e minoranze, è il quadro stabile in cui si svolge legalmente il conflitto politico.

Fabio Rugge invece vede piuttosto nell'Amministrazione (il ceto burocratico, gli enti statali e parastatali) il piano della staticità, che garantisce e impone la continuità dello Stato, mentre alla Costituzione è affidata la funzione del dinamismo possibile.

Perché fu impossibile un'epurazione radicale dei funzionari fascisti? Perché nelle società complesse moderne, in cui il legislatore deve intervenire anche sul "prosciutto di Parma", il sapere amministrativo del prefetto, del segretario comunale, del magistrato, non si rimpiazza rapidamente.

Con questi problemi, grandi e terribili, si misurarono quei nostri padri, e insieme definirono una nuova legalità di riferimento.

La nascita della Repubblica è problema stimolante, cui riandare con interesse, perché oggi avvertiamo che quella Repubblica è in crisi, che in quella Costituzione forze consistenti, nate dopo 1'89, non si riconoscono più, per cui è necessario un nuovo patto di stabilità in cui tutti possano identificarsi.

Ascoltando le relazioni, mi veniva da pensare ai molti comportamenti extra o forse anche anti-costituzionali di questi anni, provocati dal fatto che le istituzioni esistenti non sono più una risposta adeguata ai problemi che esse stesse hanno creato. Il mutamento avviene allora fatalmente in forme non previste, o anche proibite, dalle istituzioni: la magistratura che sostituisce una classe politica a un'altra, il presidente della repubblica che agisce da attore e non da arbitro super partes, il governo che legifera con i decreti, la Consulta che dichiara una legge non solo anticostituzionale, ma anche irrazionale...

Non è questa la fine della centralità del Parlamento solennemente sancita nel patto? E chi, fra i cittadini, si scandalizza più se un referendum popolare si propone di produrre una legge nuova (elettorale ad esempio), invece che abrogare soltanto la vecchia? Anche così è avvenuto il cambiamento, e ci siamo forse salvati, ma pagando dei prezzi...

Anche la società civile cioè sente la Costituzione come una gabbia sempre più stretta: l'art.33 ( "senza oneri per lo Stato "), così limpido e chiaro, è stiracchiato in mille direzioni per renderlo compatibile con la convinzione diffusa (e maggioritaria fra le forze politiche, sia pure, per fortuna, con gradazioni diverse), che il rapporto fra la scuola pubblica e quella privata deve cambiare nel sistema formativo italiano. C'è un fascino del privato (forse giusto, forse sbagliato), che ai patti intende sottrarsi, e abbisogna di nuove regole, di maglie e paletti più larghi in cui innovare, sperimentare, correggersi, tornare anche indietro se necessario, e se le forze lo consentiranno.

Il richiamo alla Costituzione è troppo spesso una clava usata in difesa, di chi si sente in minoranza, non ha più il valore del patto che ci vede uniti e tutti garantisce e protegge: anche se dimostro a un fautore convinto che l'art. 33 non permette finanziamenti pubblici alle scuole private, costui non ne prende atto, nel rispetto di un legame comune e profondo, ma chiede semmai con arroganza che venga cambiato quel patto arcaico, perché sa che molti in esso, se è questo che ha stabilito, non si riconoscono più.

Il nuovo patto che viene auspicato, e che si intravede in molte di queste pressioni, è sicuramente peggiore del precedente: ma peggiori sono forse le forze che realmente costituiscono oggi la società, ed esse devono pur sottoscriverlo per poi rispettarlo per qualche tempo.

Oggi sembra quasi preferita, giacobinamente, alla Rousseau, la volontà sbrigativa che il popolo possa cambiare in ogni momento la Costituzione. Se non nasce una nuova repubblica, non è che sopravvive la vecchia con la sua magnifica costituzione, si estendono piuttosto il degrado e il rifiuto della politica.

Ci fu allora la "zona grigia", ampia, che non si schierò nella guerra civile fra le minoranze attive dei fascisti e degli antifascisti, e attese estranea l'esito della contesa. Claudio Pavone ha ricordato che i partiti di massa, la Democrazia Cristiana soprattutto, seppero riassorbire e traghettare quelle masse indifferenti (seppure non omogenee al proprio interno), per educarle alla politica e alla democrazia.

Quale fu l'esito di quel progetto educativo, piantato sull'anticomunismo, vorrei domandare agli intellettuali cattolici trentini, se oggi, abbattuti i muri e le dighe, troppi di quei cittadini scivolano nell'antipolitica, della Lega, di Forza Italia, dell'astensionismo?

C'è una cartina di tornasole che ci avverte ancora oggi - ha concluso Claudio Pavone la sua appassionata lezione di storia - che l'eredità e la memoria del fascismo e dell'antifascismo non sono escluse dall'orizzonte degli italiani: nell'atteggiamento verso gli immigrati, in chi si richiama alla Resistenza, comunista o anticomunista che sia, prevalgono l'accoglienza e la solidarietà, negli altri le concezioni razziste delle diseguaglianze gerarchicamente disposte. E quanti candidati, nella recente campagna elettorale in Trentino, che del rifiuto degli stranieri fanno da sempre il loro cavallo di battaglia, si dichiaravano serenamente di religione cattolica!

Nell'ascoltare gli storici e i giuristi invitati a Trento dall'Istituto Gramsci, le domande che mi frullavano in testa richiedevano risposte non aggiuntive a ciò che già sapevo, ma imponevano un nuovo punto di vista su quei fatti già altre volte studiati: un vero mutamento di paradigma.

Studiare il Fascismo, la Resistenza, la Costituzione, oggi che sono scomparsi fascisti e comunisti, democristiani, socialisti e liberali, provoca una sensazione di straniamento. Forse come quando Elio Vittorini faticava a riconoscere in sé la doppia identità, del fascista che era stato, e del comunista che era diventato.

Veramente non si finisce mai di studiare la storia.

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