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QT n. 5, 6 marzo 1999 Servizi

Trento: cittadini e amministratori

La storia della città: nei rapporti fra popolazione e classe dirigente.

"L’aria della città rende liberi" fu, all’inizio di questo millennio, l’orizzonte capace di attirare chi voleva sottrarsi ai vincoli del feudalesimo. E le città spuntarono, ad isole e ad arcipelaghi, nel mare immenso e stagnante del contado feudale. E si eressero mura, con porte ben munite e sbarrate, a difesa di quel programma di libertà.

Oggi, alla fine del millennio, non esistono programmi capaci di sedurre gli elettori: così introduceva, sconsolato, Alberto Pacher, l’assemblea del suo partito per le elezioni amministrative di Trento. Né esistono convegni culturali, pensati per loro, e su di loro, capaci di sedurre i consiglieri comunali. Il titolo era "Municipalità e classe politica a Trento", organizzato dall’Università e dal Museo storico, ma della classe politica cittadina, attuale e passata, non si è vista neppure la traccia. La crisi d’identità pare evidente, a dispetto della soddisfazione con cui, nell’incontro di partito, Melchiorre Redolfi, capogruppo DS, rivendica i risultati e la compattezza della coalizione nel corso di questi anni. E a dispetto della convinzione, espressa al convegno da Paolo Pombeni, che Trento rimane una comunità a identità forte. Ma perché, aggiungeva onestamente, qui lo sgretolamento è più tardo e lento che altrove, sicuramente che a Bologna "la rossa" ad esempio, città che qualcuno a sinistra vorrebbe pensare dotata di robusti anticorpi per fronteggiare la disgregazione.

Le mura, costruite a protezione di Trento nel XIII secolo, furono demolite a metà ‘800, e con esse scomparvero anche le porte, che sono fatte per essere chiuse, ma anche per essere aperte. Quando mura e porte, uno stesso atto a due facce, il separare e il congiungere, sono abbattute, l’identità originaria della città si è esaurita da un pezzo. Demolite, e vendute, aggiunge maliziosamente Vincenzo Adorno. Così la costruzione di una nuova identità iniziò mettendo sul mercato la vecchia. Le classi dirigenti di allora ci provarono comunque con impegno. Mariapia Bigaran ha ricostruito il passaggio dal dominio del patriziato per nascita a quello della borghesia del censo e delle professioni. Il Comune autonomo nell’Impero austriaco, dotato di statuto proprio, pur nella ristrettezza delle regole elettorali, vide una sempre maggiore corrispondenza fra gruppo sociale e programma politico, fra élite liberale e modernizzazione della città. Che fu però asfittica, senza sviluppo, perché preclusa all’industrializzazione. L’opposizione all’industria, per il timore della sovversione sociale, continuerà, nel variare dei contesti politici e nazionali, fin oltre la metà del ‘900. Città a lungo in bilico fra la "guarnigione" e la "caserma", e poi frenata sulla funzione commerciale e burocratica di servizi.

Su questo tema - la struttura economica della città, nel duplice aspetto di promotrice e prodotto delle classi dirigenti in evoluzione - il convegno però è stato carente. Di classe politica municipale nell’Italia fascista non si può ovviamente parlare. Giovanni Peterlongo, già sindaco liberale, e quindi erede della grande tradizione dei Giovanelli e Oss Mazzurana, divenuto podestà di nomina governativa, subisce l’abrogazione degli statuti civici, perché "in comune non si fa politica, ma amministrazione." Franco Cagol ricorda che la giustificazione da parte del regime fu la necessità di sottrarre il comune alla lotta fra le fazioni locali. Sotto la superficie immobile, nelle vene più profonde, la città, proprio in epoca fascista, si avvia a cambiare identità. Legittimate in qualche modo dal Concordato le associazioni cattoliche, costrette alla clandestinità quelle di sinistra, le rispettive élite politiche si affacciano, all’indomani della Liberazione, nelle prime elezioni del ’46, con il seguente risultato: la Dc ottiene il 46% dei voti, il Psi e il Pci uniti il 46,2%!

La collaborazione durò poco: gli eventi nazionali e internazionali, cioè la "guerra fredda", segnarono pesantemente anche la storia di Trento. Dopo Luigino Battisti, socialista, sindaco fino al ’46 su nomina del CLN, bisognerà attendere il ’98 per avere, e non ancora per effetto di elezione, un sindaco, Alberto Pacher, dei Democratici di sinistra. In mezzo, da Tullio Odorizzi a Lorenzo Dellai, la lunga serie dei sindaci cattolici e delle giunte comunali da essi guidate.

Se la folta classe dirigente ex-democristiana di Trento ha disertato il convegno (forse "Sociologia", l’organizzatrice, provoca ancora qualche brivido lungo la schiena), per timore di essere posta sotto processo, ha sbagliato di grosso. Marta Losito certo ha evidenziato, con puntiglio sociologico, la costante debole presenza nei consigli comunali del dopoguerra delle donne, degli anziani, dei giovani, dei senza lavoro, e ha notato la subalternità del Comune-periferia alle tendenze politiche nazionali e provinciali, per cui le giunte in nulla risentivano dei risultati elettorali comunali.

Fino al ’93 quando, attraverso l’elezione diretta del sindaco con il sistema maggioritario, il Comune riacquista l’autonomia che gli spetta. Per cinquant’anni a Trento, fucina della classe politica è stato l’associazionismo cattolico, soprattutto quello studentesco universitario. Michele Nicoletti ne ha tratteggiato le caratteristiche con profonda simpatia, per l’esperienza che i giovani vi fecero, fin dall’epoca fascista, del pluralismo culturale, della socialità, del dibattito democratico. Valori confermati anche dalle testimonianze di coloro che in anni successivi divennero critici aspri del governo democristiano: Giuseppe Mattei, sindacalista dell’autunno caldo operaio, ma negli anni ’50 assessore a rappresentare l’anima sindacale della Dc; e Lidia Menapace, esponente del femminismo, che ha analizzato la presenza delle donne cattoliche in politica, e in autentico spirito di servizio. Quell’associazionismo fu una vera e propria "scuola di guerra", secondo la brillante espressione di Paolo Pombeni, e un processo permanente di "elezioni primarie", secondo Lidia Menapace: cementato certo dall’anticomunismo, il valore di quel mondo si scopre quando, dopo la nuova rottura statuale, vanno al potere nel ’92 gruppi privi di ogni retroterra associativo e culturale.

Io vedo una difficoltà in questa interpretazione "tutta elogiativa" dell’associazionismo, quello cattolico pre-politico, e quello di sinistra, più fragile, già direttamente partitico, e analizzato da Giuseppe Ferrandi: che i sommovimenti del ’68, e prima del Concilio, avrebbero così avuto una "funzione distruttiva" sulle scuole di iniziazione politica, che nessuno sarebbe più stato in grado di ricostruire, e con l’effetto di lasciare alla lunga il campo libero agli avventurieri di ogni colore. C’è un elemento di verità in questa ricostruzione. E un difetto: che in realtà, con l’esplosione del boom economico nei termini di un mercato assistito, la classe dirigente cittadina (e provinciale) sempre meno è diretta emanazione dell’associazionismo cattolico e della gerarchia ecclesiastica, ma è sempre più composta di professionisti di governo e di partito. La Chiesa non procura più alla Dc consenso diretto, ottenuto ormai prevalentemente attraverso i canali economici del clientelismo, ma le garantisce semmai una rendita in termini di legittimazione.

Che quegli fossero anni appassionati e organici lo conferma, in negativo, l’analisi di Alberto Pacher, pronunciata davanti al manipolo degli studiosi, sulla crisi dei consiglieri comunali di oggi, impossibilitati a rappresentare classi e persino segmenti sociali, e dello stesso sindaco, gravato, attraverso l’elezione diretta, di un potere privato però di sensori-antenne sulla società, che solo nuove relazioni e nuovi percorsi potrebbero costituire. Perché alcuni possano fare bene politica dentro le istituzioni, molti dovrebbero praticarla al di fuori.

La società, mentre queste parole risuonavano in un Palazzo Geremia desolatamente vuoto, si assiepava in via Belenzani ad applaudire il carnevale: arrivava nella sala ovattata il rumore delle maschere, ma il canale della comunicazione politica appariva ostruito.

Che cos’è una città oggi? Comprendeva ieri la truppa austriaca? E oggi ne fanno parte gli studenti che la abitano per i loro studi? E i turisti, e le maschere? E gli stranieri arrivati da poco, e le prostitute? Ed esiste una sede in cui la sua classe politica che, secondo Paolo Pombeni, ha la funzione educativa di trasformare gli interessi particolari in generali, possa incontrarsi, studiare, rifondare la politica stessa?

Scomparso il collante religioso, dovrebbe essere un’istituzione culturale come l’Università la più adatta allo scopo: ma finora si è rivelata anch’essa scarsamente attraente. Nella modernità dominata dal rumore e dall’incomunicabilità, sono carenti appunto le relazioni che possono ricostruire l’identità di una città, e una politica per essa.

Quel giorno si è tenuto all’Auditorium un concerto organizzato dagli studenti della mia scuola: vi ha partecipato una minoranza, esigua, perché anche l’identità di scuola è caduta, e i più, fra i ragazzi, preferiscono restare a casa a dormire, o bighellonano senza meta per le strade.

Al cimitero forse si è formata una comunità, per salutare un giovane insegnante morto improvvisamente: lì il prete ha saputo trovare, come raramente succede, di fronte a una folla commossa, le parole capaci di suggerire un’identità generatrice di impegno morale e sociale, nel legame con chi ci ha preceduto e nell’attesa di chi verrà. Nella società mercantile però, in cui tutto si compra e si vende, il rischio è che il convegno culturale, l’incontro di partito, il concerto, il funerale siano comunità episodiche, destinate a sciogliersi alla fine del rito. Ma la speranza è che nuclei di resistenza lì abbiano origine.

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