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La crisi della politica, cioè della sinistra

Quaranta milioni fra indennità varie, pagati ogni mese a ciascun parlamentare europeo sono davvero uno sproposito. Le movenze feline con le quali in Parlamento viene trattata l’ineludibile questione del finanziamento pubblico dei partiti non sono le più adatte per ispirare fiducia.

Lo sgretolarsi dei gruppi parlamentari originari che ha portato al formarsi del gruppo misto più numeroso della storia tradisce un trasformismo così diffuso da far sospettare i moventi più deteriori.

I cento giorni consumati per comporre i governi della nostra Autonomia, con l’attribuzione a gruppi monocellulari di un premio di potere e prestigio inversamente proporzionale al merito, denunciano uno spreco di tempo ed un rovesciamento di gerarchie incompatibili con un congegno ragionevolmente efficiente.

L’inconcludenza prolungata attorno a questioni importanti e tanto dibattute come l’occupazione e le riforme istituzionali, sedimenta una incredulità rassegnata od irritata.

E vi pare che dopo tutto ciò ci sia di che meravigliarsi dei molti segni che rivelano il dilagare di una sfiducia, se non addirittura di una diffidenza nei confronti della politica? Si tratta di un sentimento che prende di mira in particolare i partiti, che sono gli strumenti tipici della politica, ed è una crisi di scetticismo e delusione che investe soprattutto la sinistra, tanto che si può dire che la crisi della politica e la crisi della sinistra sono due patologie che coincidono. E di ciò vi è una ben precisa ragione: la destra può fare a meno della politica, la sinistra non esiste senza la politica.

Beninteso, anche la destra fa politica. Politica è tutto ciò che riguarda lo Stato e le sue articolazioni. E la destra è stata in vari momenti storici accentuatamente statalista, dalle monarchie assolute alle dittature nazi-fasciste del ventesimo secolo. Ma oggi chiede meno Stato e più mercato, meno politica e più economia. Le bastano le leggi di mercato, il libero dispiegarsi dei soggetti forti: aborre le mediazioni della politica, lo Stato fiscale e lo Stato sociale.

Guardiamoci attorno: la Olivetti fa un’offerta pubblica di acquisto della Telecom, mobilitando la bellezza di centomila miliardi di lire, un’operazione che non creerà un solo posto di lavoro in più, e avrà il solo, unico effetto di spostare un enorme potere da un gruppo di persone ad un altro. E contemporaneamente, ad Ivrea, uno stabilimento dello stesso gruppo Olivetti con mille dipendenti sta per essere chiuso. Non carenza di commesse, ma di finanziamenti. Queste sono le regole di mercato.

Oppure: gli avvocati penalisti stanno paralizzando la già lumachevole giustizia, per reclamare riforme che gioveranno soprattutto a mafiosi e comprimari di Tangentopoli, mentre i governi della civilissima Europa sono, se non inermi, certo impotenti verso il governo turco, loro alleato, che sta consumando la barbara esecuzione di Ocalan, capo e simbolo di un popolo privo dei più elementari diritti naturali.

Sono le contraddizioni laceranti di una società sempre più complessa e più universale, ove, nella sfera economica ed in quella morale, si agitano bisogni ed interessi in permanente conflitto che esigono di essere mediati alla luce di valori e princìpi etici. Questo ruolo di mediazione, di sintesi, di governo delle contraddizioni, è il ruolo della politica: infatti è la politica che offre alla cittadinanza, cioè alle persone in quanto tali, ricche o povere che siano, l’opportunità di influire sui destini comuni. E’ la politica che consente di associare pluralità di individui attorno a progetti e valori condivisi, attribuendo ad essi una forza, un potere che altrimenti sarebbe prerogativa soltanto dei possidenti, degli arroganti, dei violenti. E’ la politica che ha affermato, accanto alla libertà, il principio dell’uguaglianza.

E’ nella politica che la parcellizzazione dei bisogni e degli interessi che confliggono nella società può essere ricomposta in sintesi progressiva. E’ ancora la politica che ci fa dire, come hanno proclamato i socialisti europei nel loro recente congresso di Milano, che accettare l’economia di mercato non significa rassegnarsi ad una società di mercato.

Ma allora perché la sinistra si divide? Perché nella inevitabile constatazione della gravità dei problemi e della oggettiva difficoltà di risolverli, non ricerca e trova una strategia comune, e si lascia invece distrarre da protagonismi risentiti, così aggravando la crisi della sinistra, cioè della politica?