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Il maledetto imbroglio dei Balcani

Da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello.

Achille Rossi

Questo articolo, scritto prima dell’intervento della Nato contro la Serbia, istituisce un confronto fra la situazione bosniaca e quella del Kossovo. La parte finale, che abbiamo omesso in quanto si dilungava sulle prospettive future che purtroppo sono state "chiarite" nel modo che sappiamo, si concludeva comunque pronosticando l’inevitabilità di un conflitto.

Paolo Rumiz, giornalista del quotidiano triestino Il Piccolo, inviato speciale in Bosnia nel periodo della guerra, ha scritto uno dei libri più lucidi sulla tragedia della ex Jugoslavia. In "Maschera per un massacro" sostiene che la guerra nei Balcani è la storia di un maledetto imbroglio, per cui un manipolo di banditi ha fatto credere al mondo che in Jugoslavia si potesse vivere solo in Stati etnicamente ripuliti.

"Nella vicenda del Kosovo l’imbroglio è lo stesso. - ci spiega pacatamente Rumiz. - Solo che in Kosovo la situazione è molto più disperata di quella bosniaca. In Bosnia la gente non si odiava come ci è stato fatto credere e l’odio è stato costruito scientificamente attraverso la propaganda, sfruttando antiche brutte memorie di quell’area. Il Kosovo invece è un luogo dove la contrapposizione e la differenziazione etnica si respirano alla nascita. Chi vi abita non può non schierarsi e impara fin da piccolo, per necessità di autodifesa, a lanciare all’esterno segnali identitari molto forti. E sono segnali immediati, fisici, come il modo di camminare, di vestire, di viaggiare: gli uni camminano su un marciapiede, gli altri su un altro, gli albanesi frequentano alcuni bar, i serbi determinati altri, gli uni viaggiano con i fari accesi, gli altri li tengono spenti anche di notte. E tutti sanno benissimo che non possono infrangere questa regola silenziosa.

Si tratta di una contrapposizione che ha origine alla nascita e prescinde dall’oppressione politica e dalle angherie della polizia. Se vi si aggiungono le fortissime differenze sul piano linguistico, religioso, storico, mitico, si capisce quanto ci voglia poco a spingere la gente a uno scontro frontale".

La conclusione dell’analisi di Rumiz è sconsolata: "Credo che sia troppo tardi per tentare di fare qualcosa. In certe situazioni solo un evento tragico può avere un effetto catartico: le due parti si ritrovano sconvolte da un atto che però fa decantare la tensione e forse consente di ragionare".

E aggiunge, quasi scusandosi per un’affermazione che potrebbe apparire cinica: "Ho la sensazione che in questo momento ci voglia il capro espiatorio, e dunque un grosso scontro violento".

La carriera folgorante di Milosevic come guida del popolo serbo parte proprio dal Kosovo nel 1989. Dopo dieci anni di angherie sulla popolazione kosovara, quali sono in questo momento le mire di Milosevic?

"Credo che il suo piano sia di una semplicità agghiacciante: ha spartito la Bosnia con Tudjman, ha ritirato quasi tutti i serbi dalla Croazia senza battere ciglio, favorendo in tal modo la cosiddetta pace di Dayton, ora nessuna potenza al mondo può impedirgli di trasferire tutti questi serbi in Kosovo. Il progetto consiste nel riconquistare i territori perduti prima con l’Islam, poi, sul piano demografico, a causa dell’impressionante natalità albanese in Kosovo e riportare il Dna serbo verso sud nella terra natale, nella propria Palestina.

Non bisogna dimenticare che tutto è nato lì, con la grande operazione simbolica di Kosovo Polje, la grande adunata dei serbi sul luogo della sconfitta di 600 anni prima ad opera degli ottomani. Su quella memoria collettiva si costituiva il senso del destino, dunque la fatalità della resa dei conti e, contemporaneamente, la personificazione dell’eroe sconfitto di allora, Lazar, e la sua rinascita nel nuovo duce Milosevic. C’è tutta una serie di simboli che rendono impossibile pensare che Milosevic possa perdere la terra sulla quale ha costruito tutto il suo potere. Egli è nato come uomo politico cavalcando la protesta dei serbi del Kosovo".

Il popolo kossovaro e i suoi dirigenti hanno adottato per lunghi anni la strategia della non-violenza di fronte alle provocazioni serbe. Alla fine però è nata l’Uck e si è sfociati nello scontro armato. Come si spiega questo cambiamento: ha prevalso l’esasperazione, non c’è stata lungimiranza politica, oppure, semplicemente, i kosovari sono stati abbandonati al proprio destino dalle diplomazie e dall’opinione pubblica internazionale?

"I motivi dell’insorgere della lotta armata possono essere molti. Non dimentichiamo che c’è stata la grande lezione della Bosnia: è inutile aspettare disarmati che il boia arrivi. Inoltre gli eventi hanno rafforzato l’area dei falchi, anche se, a mio parere, la grande maggioranza della popolazione kosovara spera ancora che non accada nulla.

Non bisogna sottovalutare che c’è di mezzo il controllo di tutta una serie di vie di comunicazione, di traffici illeciti e che esistono collegamenti con la mafia albanese. Insomma, l’elemento storico si sovrappone a tutta una serie di logiche di tipo criminal-mafioso o comunque affaristico. Il Kosovo è un territorio essenziale per la via della droga, così come lo sono l’Albania e il Montenegro, quindi il controllo di quell’area è fondamentale. Naturalmente più una zona si trova in stato di stress, più è facile attraversarla per le forze illegali".

Nella guerra dei Balcani affari, armi e droga si sono intrecciati in maniera inestricabile. Anche in Kosovo, a suo avviso, la guerra viene finanziata con gli stessi sistemi sia dell’una sia dell’altra parte?

"Non è che esistano tanti altri sistemi: c’è l’emigrazione, organizzatissima all’estero, che invia armi e denaro, c’è la delinquenza organizzata che lavora ai confini. Da questo punto di vista non scorgo niente di nuovo. Mi sembra inutile ripetere ancora una volta il solito discorso sul fatto che noi vendiamo armi a questa gente. Se esiste un mercato è ovvio che sia accessibile a tutti. O si dichiara illegale il commercio delle armi o, se si accetta di venderle, ci si deve render conto che servono per ammazzare la gente".

Leggendo il suo libro mi ha colpito che la tesi che il bene è numericamente superiore al male, ma spesso è imbecille, manca cioè di visuale e di prospettiva. Potremmo ripeterlo anche per il Kosovo?

"Non solo per il Kosovo, ma per qualunque situazione. Pensi all’Italia stessa o all’Europa. Siamo un paese e, più ampiamente, un continente, che sta lentamente perdendo la memoria per un crollo culturale generale, per una specie di svuotamento interno. Ora, l’assenza di memoria può avere effetti più devastanti che la memoria ossessiva, perché nei vuoti di memori si possono inserire degli speculatori che giocano sulla manipolazione della storia a loro vantaggio. Non è un caso che nella tragedia jugoslava ci si sia serviti come manovalanza armata degli uomini delle montagne, che provenivano da zone in cui le vecchie memorie si sono conservate, al di fuori dei grandi scambi, come memorie ossessive di stragi etniche del passato. E non è casuale che si sia ricorsi a psichiatri come Karadzic o altri per manipolare questa memoria. A una analisi approfondita, si scopre che la guerra in Bosnia è stata un grande memoricidio, una forsennata aggressione alle memorie altrui: il ponte di Mostar non aveva significato strategico, era solo una memoria: la biblioteca di Sarajevo era un contenitore di memorie. Nel conflitto si è cercato di maggiorare le proprie memorie e di distruggere quelle altrui. Unicamente la memoria, e quindi la lunghezza della prospettiva storica, veniva considerata la base del diritto a restare o meno in un luogo".