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QT n. 9, 1 maggio 1999 Servizi

Il popolo proibito

Albanesi: una piccola patria, e una galassia di minoranze in stati ostili. La storia, l’immigrazione, la guerra, nel colloquio con alcuni rappresentanti della comunità albanese in Trentino.

Per cercare di far capire, torniamo indietro di vent’anni nella storia italiana, ai tempi del terrorismo: una situazione, malgrado tutto, infinitamente meno drammatica rispetto a quanto succede oggi nei Balcani. Eppure, la mentalità corrente in Italia, lo slogan ufficiale si condensava allora in queste parole: "O con le Brigate Rosse o con lo Stato". Chi, pur condannando il terrorismo, sottolineava però al contempo i rischi per la democrazia di certe misure "emergenziali", non aveva vita facile. Non dico la neutralità, ma neppure i distinguo erano consentiti.

In Kosovo sta accadendo ben di peggio di quanto successe nei nostri anni di piombo, e i nostri odierni interlocutori albanesi reagiscono comprensibilmente in quello stesso modo: respingono le posizioni in qualche modo intermedie del pacifismo, perché di Milosevic non ci si può assolutamente fidare, sicché il dialogo deve avvenire solo dopo una schiacciante vittoria militare della Nato; mentre per noi italiani, assai meno coinvolti, sono possibili posizioni più sfumate, ivi compresa quella del nostro governo, che mentre fa la guerra invoca la pace.

Nedzmi Mati (presidente per il Trentino dell’Associazione Amici dell’Università di Tetovo, insegnante che fa il muratore), Fejzi Ismaili (chimico che fa l’idraulico) e Azir Bajrami (presidente dell’Associazione culturale albanese "Illiria", anche lui con un titolo di studio, operaio del porfido) sono albanesi di Macedonia da parecchi anni in Italia e non hanno un concreto coinvolgimento personale nelle tragiche vicende attuali, ma proprio per questo è interessante la loro testimonianza, che si propone di dimostrare che quanto succede oggi non è che l’ultima puntata di una lunga storia di sopraffazione.

Per chiarire i fatti, Nedzmi Mati parte da molto lontano: "A differenza di quanto dice la propaganda serba, il Kosovo è stato da sempre terra albanese, abitata da tribù illiriche: gli slavi arrivarono solo nel VII secolo, impadronendosi delle terre migliori e respingendo gli albanesi nelle zone più disagiate. Dopo di che vennero costruite in Kosovo quelle famose chiese che oggi i serbi citano come culla irrinunciabile della loro civiltà".

Tralasciando alcuni secoli anche densi di eventi importanti, a cominciare dalle sanguinose lotte contro l’avanzata turca ("quando gli albanesi con la loro resistenza salvarono anche l’Italia") fino alla morte dell’eroe nazionale Scanderbeg nella seconda metà del ‘400, alla conseguente occupazione turca e alla fuga di tanti albanesi verso l’Italia, saltiamo direttamente al congresso di Londra del 1913, quando vennero fissati i confini dell’attuale Albania con un metodo analogo a quello impiegato dalle potenze europee per tracciare le frontiere dei loro domini coloniali, ossia "tirando una riga fra la cima di una montagna e l’altra", senza tenere in alcun conto la presenza delle popolazioni. E così di un’etnia che occupava circa 110.000 kmq. si trovò ad avere una patria solo chi viveva nei 38.000 kmq. dell’attuale Albania; tutti gli altri albanesi rimanevano e rimangono fuori, a ridosso dei confini, dispersi fra Kosovo, Montenegro, Macedonia, e Grecia.

Da qui comincia la storia più recente di una corposa minoranza ("un popolo proibito" - lo definiscono) guardata con sospetto, trattata in modo discriminatorio, a volte vittima di episodi terribili che la grande Storia solitamente ignora: "Ad esempio, i 12.000 albanesi sterminati in Montenegro poco dopo la fine dell’ultima guerra, o gli oltre duecentomila deportati in Turchia dalla Jugoslavia alla metà degli anni Sessanta".

Fejzi Ismaili riprende il discorso parlando dei tempi più recenti, per dimostrare come, a parte un periodo di reale autonomia vissuto fra il 1974 e l’89, la situazione degli albanesi di Jugoslavia (del Kosovo in particolare) sia diventata via via sempre più invivibile, in maniera più accentuata dopo la morte di Tito, avvenuta nel 1981: "Per distruggere il popolo albanese, hanno cambiato le leggi dal giorno alla notte, con forme di repressione che hanno dell’incredibile. Non solo è stata chiusa con un intervento militare (10 anni fa) l’università albanese di Pristina, ma addirittura sono proibite per legge le canzoni patriottiche e addirittura gli inni funebri. Cantarle costituisce reato, comporta la prigione se non peggio. Dopo che una coppia di albanesi ha avuto due figli, i successivi non possono più essere registrati, e dunque, niente scuola, niente servizi. Ma il servizio militare lo devono fare..."

Ed anche in Macedonia, dove pure gli albanesi sono il 40% della popolazione ("ma i dati ufficiali, falsi, dimezzano questa percentuale" - afferma Nedzmi Mati), c’è poco da stare allegri: "Noi rappresentiamo quasi la metà della popolazione, ma la Costituzione dello Stato e più in generale l’azione di governo è fatta esclusivamente per favorire l’altra metà".

Cioé?

"Ad esempio - risponde Azir Bajrami - penalizzando nelle assunzioni pubbliche la componente albanese, che è appena il 4% dell’apparato amministrativo. Qualcuno potrebbe obiettare che questo dipende dal fatto che gli albanesi sono meno acculturati dei macedoni.

Allora perché le autorità non hanno affiancato alle due università esistenti per i macedoni una università albanese?

Perché quando gli albanesi ne hanno fondata una di propria iniziativa (quella di Tetovo), lo Stato si è rifiutato non solo di finanziarla ma anche di riconoscerne i titoli di studio?

Si è arrivati a un’assurdità di questo genere: l’università di Tetovo ha stretto delle convenzioni con alcuni atenei stranieri, tali per cui, ad esempio, un nostro laureato, grazie ad una sorta di esame integrativo presso l’ateneo di Zagabria, vede riconosciuta la propria laurea.

Ma per arrivare a questo risultato, dobbiamo rivolgerci ad una università straniera, dobbiamo andare a Zagabria, a Tirana, o altrove... L’università macedone di Skopje non è disponibile".

Ma fino a che punto gli albanesi dell’Albania, del Kosovo, di Macedonia, del Montenegro, di Grecia si sentono un solo popolo?

"Fra gli albanesi, dovunque vivano, non esistono significative differenze: siamo un popolo solo, le difficoltà e la repressione, anziché dividerci ci hanno tenuti uniti".

Il discorso vale anche per gli abitanti dell’Albania?

"Per loro le cose sono andate diversamente, almeno fino a un certo momento. Per cinquant’anni sono rimasti completamente isolati e quando il regime è crollato ed è crollata anche l’organizzazione statale e amministrativa, molti sono stati catturati dal consumismo, da uno stile di vita che non avevano mai conosciuto e che li affascinava. Tanto più che venivano da decenni di propaganda anti-religiosa che aveva contribuito a cancellare tutta una serie di valori.

Come risultato, si è avuto un degrado del tessuto sociale di cui anche qui in Italia, con l’immigrazione dall’Albania, si hanno degli esempi. E ne abbiamo avuto una dimostrazione anche alla nostra Associazione "Illiria", verificando quanto era difficile il lavoro di aggregazione di questi immigrati. Ma le ultime vicende del Kosovo stanno cambiando le cose: anche gli albanesi d’Albania stanno acquistando la consapevolezza di essere un solo popolo: adesso anche loro hanno capito cos’è una nazione, e cosa può essere l’oppressione serba".

Concludiamo ritornando alla odierna realtà della guerra, chiedendo ai nostri interlocutori quali sono secondo loro, realisticamente, le prospettive di soluzione del conflitto.

"Ormai la sola uscita possibile è l’indipendenza del Kosovo" - mi risponde Azir Bajrami

Con la conseguenza, magari, che a quel punto saranno i serbi del Kosovo ad aver paura e a fuggire come profughi...

"Non ce ne sarebbe motivo: noi albanesi non facciamo massacri come i serbi".