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QT n. 10, 15 maggio 1999 Servizi

Balcani: dalla cronaca alla storia

Una giornata di riflessione sul passato e sul presente di una regione tormentata.

Una giornata di riflessione per discutere di guerra e pace nei Balcani: per cercare di capire le ragioni di un conflitto drammatico e vicino, per conoscere più a fondo le potenzialità e i limiti della diplomazia, per ascoltare chi ha operato e ancora oggi lavora a costruire una prospettiva di pace nella ex-Jugoslavia.

Sabato 8 maggio, a Sociologia, si sono incontrati docenti universitari ed esponenti di importanti organizzazioni di pace. Ha introdotto i lavori Giuliano Pontara, voce prestigiosa del pacifismo europeo. Se nelle guerre del passato a morire erano i militari, i soldati che combattevano al fronte - ha fatto notare - oggi muoiono soprattutto i civili; le nuove guerre uccidono persino coloro che non sono ancora nati, coloro che si imbatteranno nelle mine disseminate nelle zone di conflitto.

Riccardo Scartezzini ha sottolineato come, di fronte a questo conflitto, le tradizionali categorie di giudizio non ci soddisfino più. Assistiamo all’intrecciarsi di due guerre, quella della Serbia contro gli Albanesi del Kossovo e quella della Nato contro la Serbia; esse si combattono soprattutto sul fronte interno, sul piano della propaganda e del dibattito nell’opinione pubblica. E’ una guerra ad alto rischio, le cui ripercussioni si estenderanno su più generazioni, nella quale sarà molto arduo stabilire vinti e vincitori.

Coscienti di questa complessità, conoscere la storia dei Balcani diventa fondamentale per accostarsi al conflitto e più in generale per capire i motivi delle continue tensioni che hanno segnato quest’area. A ciò sono stati finalizzati i primi due seminari della giornata.

La relazione di Rodolfo Ragionieri, del Forum sui problemi della pace e della guerra di Firenze, si è concentrata sull’intreccio di cause che ha prodotto il susseguirsi dei conflitti nella ex-Jugoslavia dal 1989 ad oggi. Fino alla metà dell’Ottocento i due grandi imperi, asburgico e ottomano, garantiscono all’area balcanica un certo ordine, cui segue una fase turbolenta provocata prima dal disfacimento dell’Impero Ottomano e dalle guerre balcaniche, poi dalla prima guerra mondiale, dall’invasione nazi-fascista a cui reagisce un’attiva resistenza partigiana. Dal 1945 al 1989 l’ordine mondiale bipolare fa sì che la Jugoslavia di Tito acquisti una forte identità statuale come leader dei paesi non allineati, ma quando nell’89 l’Urss perde lo status di potenza mondiale inizia una fase di disordine prodotta dall’incertezza degli attori internazionali e nella quale attori minori come Saddam Hussein o Milosevic pensano di poter agire indisturbati. Per quanto riguarda il percorso che ha condotto alla formazione dello stato nazionale, nell’Impero Ottomano l’identificazione comunitaria si fonda sulle comunità religiose: si afferma un sistema di pluralismo gerarchizzato al cui vertice si trova la comunità islamica. E’ in questo contesto che cominciano a prendere corpo le identificazioni e le differenziazioni tra serbi e ortodossi e tra croati e cattolici, mentre la lingua nazionale, il serbo-croato, fattore indispensabile per la costituzione di uno stato-nazione, nasce solo nell’‘800.

Alle cause remote vanno aggiunti aspetti congiunturali, primo fra tutti il crollo del comunismo. L’esito di tali processi è un nazionalismo che non si fonda sul territorio, bensì su un’identità costruita come quella etnica.

Vanno infine ricordate le cause di medio-breve termine: il declino economico che ha investito negli anni ’80 tutto l’Est europeo e il mancato aiuto da parte dell’Occidente; la riconversione delle élites comuniste in nazionaliste; le politiche contraddittorie e ritardatarie dell’Europa e soprattutto degli Usa, oscillanti tra il disinteresse e l’attivismo militare; infine la scelta del referendum che ha fatto scegliere alle popolazioni fra il rimanere all’interno della federazione jugoslava e l’indipendenza, scelta sbagliata perché operata in società profondamente frammentate e in una realtà statuale non ancora stabilmente democratica.

L’intervento di Luca Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, ha invece focalizzato l’attenzione sul Kossovo, tentando di fornire delle chiavi di lettura al conflitto che oppone serbi e albanesi nella rivendicazione di quella regione. Fino al XVI secolo la popolazione del Kossovo è a maggioranza serba; ma sono gli albanesi ad accettare la conversione all’ Islam ed essi finiscono così per divenire l’etnia prevalente in Kossovo, mentre i serbi ortodossi abbandonano la zona.

Il XIX secolo rappresenta la grande stagione delle nazionalità: la Serbia dichiara guerra all’Impero Ottomano e s’incammina progressivamente verso l’indipendenza, raggiunta nel 1878; nel 1913 anche l’Albania è indipendente, ma il Kossovo, culla della nazione serba, non ne fa parte. Il progetto di Tito ha alla propria base le istanze della multinazionalità e del federalismo: in questo quadro, nel 1974, il Kossovo ottiene lo status di regione autonoma all’interno della Jugoslavia, al fine di arginare il crescente nazionalismo albanese.

Il terzo seminario ha avuto come tema il ruolo dell’Onu e della diplomazia internazionale. A confrontarsi sono stati invitati Giuseppe Nesi, docente di Diritto internazionale a Trento, e Mario Raffaelli, già mediatore di pace in Africa.

Dopo aver sintetizzato la proposta di pace discussa al G8 di Bonn, Giuseppe Nesi ha messo in luce come ogni negoziato sul Kossovo si scontra con un duplice ordine di difficoltà. Esiste in primo luogo un problema di rappresentatività: chi rappresenta oggi, al tavolo delle trattative, gli albanesi del Kossovo? Il partito democratico di Rugova o gli indipendentisti dell’Uck?

Ed esiste poi il problema del coinvolgimento, nell’elaborazione di un piano di pace per la regione, di Stati che non sono direttamente coinvolti nel conflitto, ma che di fatto ne sono pesantemente investiti, come l’Albania e la Macedonia, e per i quali occorre valutare con attenzione le possibili ripercussioni che ogni soluzione potrebbe provocare sui fragili equilibri interni.

Mario Raffaelli ha insistito sull’importanza di realizzare una sinergia tra diplomazia istituzionale e diplomazia popolare. Di fronte a molti conflitti, l’Onu è risultata assente, e questo per molteplici ragioni: la paralisi a cui spesso si è vista costretta dal meccanismo del diritto di veto; la debolezza a livello militare; il fatto che essa sia sorta per gestire conflitti fra Stati e non dentro uno stesso Stato.

L’ultimo tema seminariale è stato il ruolo della diplomazia popolare e della società civile di fronte ai conflitti.

Alberto L’Abate, tra i promotori della Campagna per una soluzione non violenta in Kossovo, e Lisa Clark, di Beati i Costruttori di Pace, hanno sottolineato come la diplomazia ufficiale non persegua come unico fine la pace, ma sia spesso prigioniera degli interessi economici delle grandi potenze. Ecco perché oggi l’obiettivo di tutti dev’essere quello di trovare un raccordo tra la diplomazia ufficiale e quella non ufficiale, com’è avvenuto per la questione delle mine anti-uomo. Investire nella pace anziché nelle armi può essere più difficile, e sicuramente richiede un progetto di lungo respiro, ma è solo con il dialogo, il confronto e la cooperazione che si costruiscono le basi della comunicazione e della convivenza tra i popoli. Questo stavano cercando di fare gli osservatori Osce in Kossovo, con il loro lavoro a garanzia della legalità; e i ragazzi dell’Operazione Colomba, con la loro scelta di vivere in un villaggio misto per dimostrare che la coesistenza di serbi e albanesi era ancora possibile. I loro sforzi e i loro successi sono stati spazzati via in un attimo dalle bombe, ed è lì che è cominciata la tragedia.

Sono queste ultime considerazioni a lasciarci una profonda inquietudine, e un senso di sconfitta di fronte all’attacco Nato.

Davvero si poteva fare di più per evitare questa guerra? Pontara risponde alla domanda citando le parole di Gandhi: non dobbiamo interrogarci su come costruire un processo di pace, perché la pace è il processo.