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QT n. 12, 12 giugno 1999 Servizi

Tolleranza zero o diritti per tutti?

Una campagna di Amnesty International denuncia la preoccupante situazione della giustizia negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti, patria della democrazia e dei diritti civili, ma anche dei modi sbrigativi e pieni di "effetti collaterali" del sindaco di New York nella lotta al crimine, con una polizia che più volte ci hanno mostrato mentre spara con disinvoltura o impegnata in pestaggi immotivati, sono al centro dell’ultima campagna avviata da Amnesty International, "Rights for all" ("Diritti per tutti"). Una inizativa insolita per un’organizzazione che di regola, per conservare una meritata fama di obiettività, si occupa di singoli casi con nome e cognome, o di campagne su temi specifici, a cominciare dalla pena di morte.

Ma perché proprio gli Stati Uniti, visto che le violazioni di diritti umani sono tanto più gravi in altri stati?

Proprio perché gli Usa sono un paese democratico - spiegano quelli di Amnesty - ricco, potente, esportatore ovunque di mode culturali e modelli di vita, e che dunque rischiano di far apparire come accettabili e moderni certi comportamenti che invece sono condannabili o addirittura illegali. Basti citare l’entusiasmo del sindaco di Milano per la "tolleranza zero" del sindaco Giuliani, o il fatto che il governo filippino, dove da poco è stata reintrodotta la pena di morte, ha inviato una delegazione negli Usa per apprendere le più moderne tecniche di esecuzione capitale.

Anche in questo caso, comunque, non c’è nulla di preconcetto o di ideologico nell’azione di Amnesty: il discorso è strettamente tecnico e riguarda la violazione di regole in tema di amministrazione della giustizia.

A cominciare dalle frequenti brutalità della polizia e dai sempre più sofisticati e pericolosi mezzi di dissuasione e di contenzione che, usati indiscriminatamente, hanno provocato la morte di diverse persone: dagli spray chimici come l’Oleoresin Capsicum, uno spray al pepe oleoresinoso in grado di provocare gravi ustioni, ad aggeggi tecnologici come il Taser, un dispositivo che spara degli uncini collegati ad un filo elettrico ad alto voltaggio, o l’Hogtying, in cui le caviglie del sospetto vengono legate ai polsi da dietro le spalle.

Gelle carceri americane sono attualmente detenute oltre 1.700.000 persone, quasi il triplo rispetto a vent’anni fa e in larga maggioranza si tratta di afro-americani e ispanici. In questa situazione di sovraffollamento, le situazioni di illegalità si moltiplicano: mancanza di assistenza sanitaria, violenze, stupri, migliaia di minorenni ospitati nelle carceri per adulti... E questo sbrigativo elenco nel lavoro di Amnesty si traduce in una lunga lista - per quanto incompleta - di casi, di testimonianze, di denunce.

Per fronteggiare i problemi di sicurezza derivanti dal crescente numero di carcerati, il sistema penitenziario americano da un lato fa ricorso alla tradizione (in Alabama e Arizona i reclusi lavorano con i ferri ai piedi e vengono incatenati uno all’altro; e per punirli di qualche trasgressione li tengono sotto il sole, legati); dall’altra si fa ricorso a sistemi "moderni" non meno preoccupanti, come spray chimici, manganelli elettrici, ingegnose sedie di costrizione.

A tutto questo si aggiunge la costruzione di penitenziari asettici, con celle senza luce naturale e lunghi periodi d’isolamento, e un crescente affidamento della gestione ad aziende private che governano il carcere come fosse un’azienda, suscitando numerosi, preoccupati interrogativi.

Altro triste capitolo, quello dei rifugiati, di chi chiede asilo in America. "Gli Stati Uniti - dicono ad Amnesty - hanno accettato il principio del diritto d’asilo, ma lo hanno privato di ogni significato". In attesa di definire la posizione di queste persone, infatti, le autorità le tengono per mesi in condizioni di detenzione, usando manette e isolamento, mescolando delinquenti e persone per bene, separando famiglie, allontanando i figli dai genitori, disattendendo insomma le norme internazionali in materia e riservando le durezze carcerarie cui già abbiamo accennato anche a questi infelici, che certo le meritano ancor meno che non i normali detenuti.

Garliamo in conclusione della pena di morte. E’ nota l’avversione di Amnesty nei confronti della pena capitale e la sua proposta di arrivare nel 2000 ad una moratoria delle escuzioni; ma nella campagna "Rights for all", le argomentazioni non sono di tipo etico: si ricorda invece che dal 1990 ad oggi in tutto il mondo sono stati giustiziati - a quanto è dato sapere - 15 minorenni, dieci dei quali negli Stati Uniti, uno dei pochissimi Stati che non hanno ancora ratificato una convenzione internazionale sui diritti dei minori che proibisce la pena di morte, trovandosi così in compagnia di paesi quali Iran, Nigeria, Arabia Saudita e Yemen che non sono esattamente paladini dei diritti civili. E le prospettive non sembrano rosee, visto che in Texas si sta discutendo di abbassare ulteriormente l’età dei candidati alla pena capitale.

"Giustiziabili" sono poi perfino i minorati mentali, e ne sono stati uccisi 33 da che, nel ’76, gli Stati Uniti hanno ripreso a praticare la pena di morte dopo quattro anni di sospensione.

Un’altra denuncia riguarda poi l’esecuzione di detenuti stranieri, che possono sì venir giustiziati, ma hanno diritto, secondo precisi accordi internazionali, all’assistenza del relativo consolato, che invece viene spesso negata, con evidenti ripercussioni sull’andamento dei processi.

Karen Hooper, del coordinamento nazionale di Amnesty che si occupa della pena di morte, presentando questa campagna incentrata sul rispetti dei diritti negli Stati Uniti, rileva con preoccupazione che in quel paese stanno aumentando anche le cosiddette "esecuzioni consensuali", cioè la messa a morte di condannati che ad un certo punto rinunciano ad ulteriori azioni legali vòlte a scongiurare l’esecuzione, o perché stanchi di combattere, o perché - e questo è molto significativo del clima che si respira - perché hanno interiorizzato la mentalità corrente e quindi, essendosi pentiti del crimine commesso, ritengono di meritare la morte.

C’è speranza che l’opinione pubblica americana cambi idea sulla pena di morte? Ci sono dei segnali in proposito?

"Qualcosa sta cambiando, ma è un processo lento - risponde Karen Hooper. - Tempo fa, in Nebraska, era stata approvata l’istituzione di una commissione d’inchiesta che doveva verificare se l’applicazione o meno della pena di morte fosse condizionata da criteri di discriminazione razziale. E in attesa dei risultati le esecuzioni capitali sarebbero state sospese. Poi il governatore dello Stato ha bloccato tutto, ma l’episodio è ugualmente indicativo di un mutamento in atto. Io credo che ci vorranno venti-trent’anni perché negli Stati Uniti si possa discutere della pena capitale così come si fa in Europa. Adesso sarebbe fiato sprecato attaccare il principio, puntare sulla immoralità o sull’inefficacia di questa pena. L’obiettivo che dobbiamo perseguire per ottenere un risultato è la moratoria."

E nel frattempo?

"Intanto continuiamo nel nostro lavoro, facendo pressione sulle autorità e lavorando sull’educazione della gente. I nostri appelli, le lettere, i fax, le e-mail, gli interventi sulla stampa sono doppiamente importanti. Anzitutto per i risultati che otteniamo; e ricordo che in America l’azione penale non è obbligatoria come in Italia, molto dipende dalla discrezionalità del magistrato e quindi, in casi di violazione della legalità, è importante esercitare pressioni, riuscire a creare il "caso".

In secondo luogo: manifestare la propria contrarietà alla pena di morte è cosa ben diversa per un americano che non per un europeo: là, esporsi in questo senso contro l’opinione della maggioranza, richiede un certo coraggio, rischi di perdere gli amici... E’ importante, quindi, sentire l’appoggio, la solidarietà di tanta gente che, da lontano, la pensa come te..."

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