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QT n. 13, 26 giugno 1999 Servizi

Guerra: da che parte stare?

Forse non è possibile dare ragione, in blocco, né ai pacifisti né agli interventisti...

Come ci ha modificati la guerra recente, la duplice guerra della Serbia contro i cittadini del Kossovo, e della Nato contro la Serbia?

Ognuno di noi vi si è imbattuto proveniente da storie diverse, per ragioni d’età, d’opinioni politiche e religiose, di esperienze di vita, di conoscenze geografiche e storiche. C’è chi ha attraversato direttamente la lunga guerra civile europea dal 1914 al 1945, chi l’ha studiata solo sui libri, e chi nemmeno su quelli. C’è chi è stato nei Balcani da volontario a costruire la pace. Io vi sono stato, in vacanza, negli anni ’70, a Hvar e Umago, ma ho scoperto che quelle località, bellissime, erano non solo Jugoslavia ma anche Croazia, appena negli anni ’90, quando sono scoppiate le secessioni e le guerre.

C’è chi ha vissuto gli anni della guerra fredda, la corsa agli armamenti, il terrore nucleare. Contro l’installazione dei missili a Comiso, anch’io ho raccolto centinaia di firme, a scuola, al Cineforum, nel partito comunista, nel mio quartiere. C’è chi si è opposto alla guerra nel Golfo, e chi l’ha considerata una legittima operazione dell’Onu contro il dittatore irakeno.

La stessa Nato divide le coscienze: è un arsenale militare di dominio, o il legame fatale dell’Italia con l’Occidente, o la sede in cui si misurano, storicamente, gli Stati Uniti e un’Europa che cresce con difficoltà? C’è chi apprezza l’appello del papa alla pace, e chi sa del cardinale Stepinac, croato filofascista e nemico dei serbi, recentemente elevato all’onore degli altari.

Qualcuno afferma che nessuna guerra ha mai risolto i problemi per cui è stata combattuta, e qualcuno cita Primo Levi il quale, alla domanda se la violenza ha una funzione nella storia, ha risposto dolorosamente: "Purtroppo sì".

Mi sono indignato al proclama di Pannella quando ha visto "finalmente" cominciare i bombardamenti, e poi, ogni sera, al TG, per lunghe settimane, ho sperato di sentire la notizia che erano stati finalmente sospesi.

Partecipo a Trento alle manifestazioni per la pace sui ponti di San Lorenzo e dei Cavalleggeri. Non siamo in molti. E mi accorgo che alcune parole che i pacifisti dicono e scrivono in questa occasione non mi convincono a pieno. Leggo opinioni, e giornali, che sostengono tesi diverse: i più sono però contrari all’intervento militare della Nato. A certe obiezioni ed analisi, di chi giustifica l’uso della forza, non so bene come rispondere, e qualche mia domanda, dai pacifisti, la mia parte, rimane senza risposta. Ai miei studenti, per i primi lunghi giorni, leggo soltanto il corsivo di Michele Serra impigliato nei dubbi di fronte alle domande della figlia di nove anni. Ai tempi della guerra del Golfo ho girato per la mia scuola, con il sudore che colava lungo la schiena, esibendo un cartello: "Mi vergogno di essere italiano". Ma adesso, quando Alex Zanotelli scrive per L’Adige tre colonne di piombo contro l’imperialismo americano senza mai nominare Milosevic, mi sento imbarazzato.

Che serbi e albanesi, croati e bosniaci, siano convissuti in quella terra, a lungo e serenamente, come qualcuno sostiene, non lo ritengo più vero. Su L’Aquilone, il giornalino delle scuole medie di Gardolo, ragazzi provenienti da quelle regioni diverse, si scambiano parole dure. E un amico argentino mi dice che le comunità di operai serbi e croati, emigrati a Buenos Aires nel dopoguerra, in fabbrica non si sono mai sopportate.

Ci vollero l’assolutismo ottomano e asburgico, e poi il comunismo di Tito per imporre nei Balcani la "convivenza". C’è dunque incompatibilità fra la democrazia e la convivenza fra etnie storicamente nemiche? E’ Erich Hobsbawm, nel bilancio de "Il secolo breve", ad affermare che dove le divisioni etniche (e religiose, e sociali) sono vissute come assolute, la democrazia si rivela un metodo di governo inadeguato. Perché le procedure democratiche funzionino è necessario che i conflitti pre-moderni (di sangue, di religione, di suolo) non siano radicali, che le componenti di un popolo non si sentano incompatibili. Applicare la democrazia, cioè contare i voti in un referendum per l’autodeterminazione , in certi contesti può provocare tragedie. La democrazia lì è non solo in pericolo, ma può essere essa stessa un pericolo: altro che fine della storia!

E allora? Dobbiamo acconciarci a che qualcuno, ieri i turchi e gli Asburgo, poi Tito, oggi la Nato, domani un’Onu più saggia e legittima, ma sempre con pugno di ferro, costringa a convivere quelli che sono portatori di un’identità etnico-religiosa ancora troppo accesa?

O rassegnarci al formarsi di minuscoli Stati etnici, e regolamentare, dall’alto dell’Onu, la secessione senza troppi spari di chi proprio dice di non potere vivere al fianco di chi ha un sangue diverso?

Conflitti di questo genere sono scritti nella storia di ogni nazione: "Vedi, Signor cortese / di che lievi cagion che crudel guerra" - cantava Francesco Petrarca, alla metà del ‘300, a proposito di uno scontro fra gli Estensi di Ferrara e i Gonzaga di Mantova, in cui furono coinvolte Milano, Verona, Bologna, e altre città ancora. Ci volle la "forza" di un monarca, nel corso dell’età moderna, per disciplinare, e pacificare, nei modi possibili, i feudi e le città d’Europa. E solo dopo, nell’ambito degli stati nazionali unificati, e mai etnicamente puri, poté emergere e affermarsi il bisogno della democrazia.

Oggi che ferraresi e mantovani sono diventati italiani, senza dimenticare l’identità particolare precedente, l’Italia può contribuire alla costruzione dell’identità europea. Possono gli italiani, i francesi, i tedeschi, restando tali, diventare europei? E coinvolgere nella costruzione serbi e albanesi, cechi e slovacchi, ungheresi e rumeni, senza bisogno di un "monarca" che disciplini i riottosi con pugno di ferro?

Sarebbe la prima volta nella storia, e dobbiamo sapere che il compito è immane. In Hobsbawm prevale a questo proposito il pessimismo, anche se riconosce che "il mondo può cambiare", e che non siamo rigidamente determinati dal nostro passato. La maturità, talvolta, sta nell’oblio della storia.

Non riescono a sentirsi jugoslavi, a stare insieme, i serbi e i croati, i kosovari e i bosniaci. E noi, cittadini di cento città, come riusciamo a essere, a sentirci italiani? E con quali difficoltà riusciamo a diventare europei? Francesi e tedeschi, tedeschi e russi, in questo secolo si sono massacrati due volte nelle guerre mondiali. Che negli ultimi cinquant’anni abbiano saputo, in qualche modo, rinunciare alle guerre combattute, è un segno positivo che persino sorprende.

Come sono stati de-sovranizzati i conti e i marchesi, i vescovi e le città, oggi dobbiamo sapere de-sovranizzare gli Stati, per affidare la forza solo a un organismo sovranazionale. Ma questa rinuncia è penosa, perché è vero che gli Stati si sono sfidati in guerre feroci, ma ne hanno anche abrogato altre, di guerre crudeli, che nascevano da cagioni più sciocche e più lievi. E così costituivano un’identità che dava ai più sicurezza.

Quante volte in queste settimane abbiamo sentito citare l’art.11 della Costituzione, "l’Italia ripudia la guerra" e, per assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, "consente…alle limitazioni di sovranità necessarie".

Ho sempre considerato, e spiegato ai miei studenti, il secondo comma come il logico e pacifico sviluppo del primo. Ma in questa occasione ho intravisto anche l’antinomia possibile, il dolore e il rischio del parto: se l’organismo internazionale di cui, desovranizzata, la tua nazione fa parte, decide un intervento militare, che come nazione non condividi, abbandoni l’organismo e ti riprendi la sovranità da poco ceduta? Sarebbe, questo isolarsi, un progredire o un precipitare all’indietro?

Io penso che l’Italia, la Francia, la Germania non si sarebbero inventate, da sole, di bombardare Belgrado, per realizzare "la giustizia fra le nazioni". Troppo è stato il sangue, e troppe le lacrime inutili versate: non hanno voluto, o potuto, sottrarsi all’impegno di un’alleanza.

Nello slogan pacifista che è risuonato di più: "L’Italia è in guerra. Io no.", c’è l’indignazione contro un governo che tradisce il principio fondamentale de "l’Italia che ripudia la guerra". C’era forse in qualcuno l’illusione di poter così separare se stesso, costruttore di pace, dalle sorti della propria nazione fautrice di guerra, e assolversi eticamente. O c’era soprattutto il desiderio che l’Italia si tirasse fuori dalla sporca faccenda, quasi che, bloccati a terra i nostri aeroplani, noi potessimo recuperare l’innocenza perduta. E invece non siamo più solo italiani, ma anche, fatalmente, anche se ancora con scarsa coscienza, europei. E’ un nazionalismo sottile quello dell’aggrapparsi al "noi non c’entriamo!" Giuseppe di Vittorio, in altro ambito, affermava: "La divisione sindacale rende forse più liberi nel sostenere e magari nel predicare le proprie ragioni, ma rende infinitamente più deboli nel farle prevalere."

Sono le antinomie, i passi sghembi, lo spazio convesso della politica che si sono ripresentati in questa guerra: mai la scelta è fra il bene e il male, ma quasi sempre siamo chiamati a scegliere un male minore. Il ritrarsi dalla politica, l’astenersi, ha anche questa causa profonda: ognuno di noi crede di conoscere la decisione giusta da prendere, mentre la politica è relazione, siamo "noi, in quanto esistiamo al plurale" - diceva Hannah Arendt. Della politica dobbiamo accettare il limite.

Io ho sperimentato il peso di dare ragione, a pezzi, a Giuliano Pontara e a Vittorio Foa, a Norberto Bobbio e a Danilo Zolo, ad Alberto Conci e a Sergio Fabbrini, a Giorgio Tosi e a Ettore Paris. A Luisa Muraro e persino, in qualche parola, a Barbara Spinelli.

Mi ha colpito in un dibattito l’osservazione del giudice Carlo Ancona: manifestare contro la Nato è appoggiare oggettivamente Milosevic. Solitamente una provocazione come questa è respinta con sdegno. Io invece la accetto: le proteste, in Europa occidentale e in America, contro i bombardamenti sono certo usate, e amplificate, dal dittatore per i suoi fini. Non possiamo sottrarci a questa contraddizione: anche chi a Belgrado critica Milosevic, anche chi a Pristina non si entusiasma per i guerriglieri indipendentisti dell’Uck, sarà accusato di fare il gioco del nemico. E in parte è così.

E se nessuno avesse fatto sentire forte la voce contro i bombardamenti, si sarebbe potuta levare, flebile, tardiva, la proposta di ritrovare la via della trattativa diplomatica?

Questo travaglio interiore, dell’ "essere dentro" e l’"essere fuori", l’"essere se stessi" e l’"essere altri", è stato espresso con grande turbamento dagli intellettuali migliori della Germania in epoca nazista. Scriveva Thomas Mann: "La propaganda ci ha fatto sentire così a fondo le conseguenze spaventose di una sconfitta tedesca, che non possiamo fare a meno di temerla più di qualunque altra cosa al mondo. Tuttavia c’è una cosa che alcuni di noi solo in momenti che a noi stessi sembrano delittuosi, altri invece sempre e francamente, temono più della sconfitta tedesca, ed è la vittoria tedesca. Io quasi non ho il coraggio di chiedermi a quale delle due categorie appartengo. Forse a una terza, quella che si augura la sconfitta costantemente e con chiara coscienza, ma non senza costante rimorso".

E Dietrich Bonhoeffer: "I cristiani in Germania dovranno affrontare una terribile alternativa: o augurarsi la sconfitta del loro paese, perché la civiltà cristiana possa sopravvivere, o augurarsi la vittoria del loro paese che distruggerà la nostra civiltà. Io so quale di queste possibilità debbo scegliere, ma non posso fare questa scelta in felice spirito."

La pace è il "processo", diceva Gandhi, come ha ricordato in questa occasione Giuliano Pontara. Forse il processo ha bisogno dei pacifisti assoluti, avversi ad ogni ultimatum, capaci di sopportare la trattativa ad oltranza, anche mentre è in corso lo sterminio dei deboli. Capaci di porgere, evangelicamente, e provocatoriamente, l’altra guancia, per mostrare già presente l’homo ineditus della pace. E ha bisogno di chi ha il coraggio, il cinico realismo, di usare per un momento la forza, al suo minimo, che colpisce anche l’innocente.

Le degenerazioni che vengono da lontano, e poi portano alla guerra, andrebbero prevenute: anche in Kossovo la guerra ha segnato il fallimento della prevenzione. Ma la colpa di una prevenzione fallita deve portare all’inazione, all’indecisione? Chi fa l’educatore, come genitore, insegnante, operatore sociale, sa che gli interventi punitivi sono sempre il risultato di prevenzioni mancate. E anche la condanna al carcere, assegnata a un giovane da un magistrato, è frutto di una famiglia, di una scuola, di una società che non hanno saputo prevenire. Eppure, pur consapevoli della nostra responsabilità, non possiamo esimerci dagli interventi punitivi. Che devono essere leggeri, imbarazzati, perché mentre li applichiamo non siamo innocenti. E rieducativi, per chi li subisce, e per chi li gestisce. Io sento molto forte l’analogia fra questo ambito privato dell’educazione, e quello politico della pace e della guerra. Punire, e guerreggiare, è però una sconfitta: l’unica vittoria è l’uscirne tutti diversi, più vicini all’homo absconditus del futuro. La seconda guerra mondiale è scoppiata anche per una mancata prevenzione da parte degli Stati democratici. Anzi il nazismo è nato e cresciuto per un eccesso di punizione da parte della Francia e dell’Inghilterra nei confronti della Germania, come sapeva John Keynes, il grande economista inglese, già nel 1919. Possiamo, per questa colpa, accusare Francia e Inghilterra, Usa e Urss, di aver partecipato alla guerra contro il nazismo?

Quella guerra fu "guerra costituente", degli arsenali della Nato e del Patto di Varsavia, e dei deboli vagiti dell’Onu soprattutto. Le guerre (è terribile riconoscerlo), segno della nostra arretratezza come specie umana, ristrutturano, a livello istituzionale, e nella coscienza di ognuno, i rapporti fra etica, diritto, politica. Lo saprà fare anche questa, trasformando i vagiti in una voce più forte e ascoltata?

Questa guerra è una follia, si è ripetuto. Ma è una parola, follia, usata in ambito politico e storico, che non mi convince. Può essere un’iperbole efficace per condannare. Ma rischia di lasciare inspiegato ciò che invece va chiarito. Anche il nazismo, per una stagione, fu spiegato come la follia di Hitler: oggi sappiamo che le dittature totalitarie non sono follia, non sono nemmeno solo terrore, ma anche consenso e passione.

Bonhoeffer, il teologo luterano impiccato da Hitler pochi giorni prima della sconfitta e della liberazione della Germania, combatté il nazismo, ma non lo poté fare in "felice spirito".

Se vogliamo accelerare la nascita dell’homo absconditus, non violento, nel processo di civilizzazione, dobbiamo, credo, partecipare alla critica della guerra, inerzia della storia, con spirito meno sicuro e felice.

Giacomo Leopardi, agli inizi dell’800, progettava un’umanità che si sentisse tutta un’"umana compagnia". A chi, condannato a praticare le competizioni e le guerre che la storia allora esigeva, gli obiettava di essere un utopista estraneo al progresso allora possibile, replicava di voler scrivere per i giovani del XX secolo. Era ottimista, quel poeta, il più pessimista della nostra letteratura.