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QT n. 18, 23 ottobre 1999 Servizi

Ricordi roveretani di beat-generation

Trent’anni dalla morte di Jack Kerouac.

Trenta anni fa, il 20 ottobre 1969, io compivo 19 anni. Svegliandomi la mattina dopo e accendendo la radio che avevo a fianco del letto, ho intercettato un radio-giornale ed ho appreso la notizia che durante la notte in un ospedale della Florida - dove era finito a vivere, con la madre e l’ultima moglie, dopo una vita sregolata e bruciante passata fra New York e S. Francisco, ed in viaggi da costa a costa immortalati nei suoi libri - era morto Jack Kerouac, padre della beat-generation, di cui già allora ero un appassionato lettore (e non ho più smesso di esserlo).

Si sapeva bene che da anni Jack non funzionava più a dovere. Ormai anche l’ultimo libro "Satori in Paris" lo aveva scritto con la bottiglia di bourbon a portata di mano, e si sente benissimo leggendolo. Alcuni viaggi promozionali in Europa erano stati un allucinante (per quanto clamoroso) disastro, perché anche alle conferenze- stampa era arrivato ubriaco fradicio ed a Milano si era addirittura addormentato ciucco perso di fronte agli attoniti giornalisti, accorsi numerosi ad apprendere il verbo di una delle più note, anche se controverse, voci della letteratura americana, e che ne hanno invece potuto sentire solo il raglio russante. Non era vecchio Jack nel ‘69. Era nato nel 1922 a Lowell, una cittadina operaia della costa orientale (Massachussets), a nord di New York, da una famiglia di origini franco-canadesi. Ed in lingua francese aveva svolto anche tutto il primo ciclo scolastico in scuole parrocchiali cattoliche. All’università, a New York, era approdato per meriti "sportivi" (ingaggiato come componente della squadra di baseball dell’ateneo) ma se ne era rapidamente andato, stufo marcio dell’ambiente accademico, per una vita di espedienti, lavori precari e scrittura. Ma negli ambienti universitari newyorchesi aveva comunque incontrato quello che è diventato il primo nucleo della beat-generation: Allen Ginsberg, Wlliam Burroughs, e poi Gregory Corso.

Se ci sono stati libri che hanno segnato la mia vita - e quella di qualcun altro della mia generazione - sono stati proprio quelli di Kerouac: "Sulla strada", "I sotterranei", "Tristessa", "Maggie Cassidy", insieme a quelli di Ginsberg, "Juke box all’idrogeno" in particolare. Nel soffocante ambiente liceale roveretano i libri di Kerouac, in quei lontani anni ‘60, squarciavano un’insopportabile cappa di ottuso conformismo e routine senza prospettive, aprivano una finestra su altre possibilità esistenziali distanti anni luce dalla vita quotidiana che ci trovavamo attorno, ma in grado di parlare lo stesso linguaggio degli apparati percettivi delle nostre macchine desideranti. Per me proprio dai libri di Kerouac è partito quel viaggio senza ritorno via dalla scontata banalità dell’Italietta post-fascista degli anni ‘50 in cui ero nato, e che si è poi mescolato con la rivolta "ideologica" degli anni ‘70, per poi - esaurite le ideologie - rimanere la vera àncora del mio ormai maturo anticonformismo, quello che, in fondo, mi spinge ancora a bazzicare una testata indipendente come questa (ed ormai siamo in pochi, chi pensava solo alla "politica" se ne è andato su altre, più remunerative, sponde).

La definizione migliore della beat-generation l’ho trovata in un libro di Alan Watts sul buddismo americano ("Questo è tutto", ed. Arcana, 1973). Secondo Watts beat è la non-partecipazione all’American Way of Life: "una rivolta che non si prefigge di cambiare l’ordine esistente, ma semplicemente se ne distoglie per trovare il significato della vita nell’esperienza soggettiva anziché nel riconoscimento oggettivo". Sì, credo proprio che qui ci siamo, che questa sia stata la questione centrale per il Kerouac degli anni ‘40-’50 come per gli insofferenti liceali roveretani degli anni ‘60. L’America economicamente in corsa del dopoguerra, come la Rovereto (assieme al resto d’Italia, almeno quella del nord) del boom economico, potevano dare per scontato il livello della sopravvivenza materiale, e aprivano dunque per la prima volta agli individui la possibilità di occuparsi di se stessi, della propria personale ricerca di una felicità possibile qui ed ora. Un po’ quello che in quegli anni stava elaborando teoricamente Marcuse, in libri come "Eros e civiltà"e "L’uomo ad una dimensione" sulla base di un suo personalissimo mix fra marxismo e psicanalisi : la possibilità di far diminuire la quantità di energia libidica bruciata nella sublimazione necessaria per lo sviluppo civile : insomma un’attenuazione del freudiano "disagio della civiltà", per una vita istintualmente e sensualmente più piena. Ma quello che il filosofo immigrato dalla Germania si sforzava di teorizzare, i beat lo stavano mettendo in pratica già da un po’ : uno stile di vita sotterraneo e bohémien, aperto a tutte le esperienze ("il messaggio è : allargare l’area della coscienza" recitava Ginsberg), raccogliendo l’eredità di tradizioni tipicamente americane come quella hip del mondo del jazz, quella degli hobo (lavoratori precari vagabondi prodotti dalla Grande Crisi del 1929), del vitalismo panico alla Whitmann ecc., e formando in questo modo la base per quella esplosione di massa della controcultura che ha trovato nella musica rock degli anni ‘60 e ‘70 il suo amplificatore più potente e che ancora vive in rockband degli anni ‘90 come gli U2 e i REM o nell’italiano Ligabue (ricordate la kerouacchiana "Certe notti"?).

Ecosì sono passati trent’anni da quando è scomparso Kerouac (da poco se ne sono andati anche Ginsberg e Burroughs, mentre ancora vivono Corso ed i californiani Ferlinghetti e Snyder, sempre attivi su una linea di controcultura senza corrispettivi in Europa).

Che dire della loro vicenda, alla luce di una postmodernità che alla chiusura del secolo assume tinte sempre più grigie e soffocanti, dopo le rotture creative degli anni ‘60-’70? Certo non si può che prendere decisamente le distanze dagli aspetti più autodistruttivi - tutt’altro che contingenti in verità - di questo tentativo tra il mistico ed il panico di fuoriuscita dal mondo, che nella morte per alcoolismo di Kerouac trova la sua celebrazione esemplare (così come nelle tante morti per droga della scena rock: da Jimi Hendrix a Jim Morrison, passando per Janis Joplin). Ma in questa plumbea fine secolo sento rivivere con particolare intensità il bisogno di liberazione, di felicità, compassione e creatività che erano alla base di quella ricerca, e che vibrano nelle pagine di Kerouac, anche se ormai storicamente lontane. La storia però è fatta di corsi e ricorsi, e non finisce mai. L’ondata beat, montante negli anni ‘50/’60 in America e in quelli ‘60/’70 in Europa, è ora infranta a riva. Restano però i loro libri (sempre vivi evidentemente se la fortuna editoriale di Kerouac è più fiorente che mai), disponibili come messaggi in bottiglia per altre generazioni di altre età future, se solo queste vorranno voltarsi in dietro per cercare di riannodare il filo rosso della insopprimibile ricerca umana di felicità e liberazione.