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QT n. 19, 6 novembre 1999 Servizi

Quando il “pezzo di carta” non interessa

Università della Terza Età: 120.000 studenti (12.000 in regione), sempre meno anziani, che studiano per il piacere di imparare.

Una volta c’erano le Università Popolari, strumenti di emancipazione culturale dedicati ad un proletariato trascurato dalle istituzioni scolastiche; a cent’anni di distanza, ecco il boom delle Università della terza età (ma le denominazioni sono le più diverse: università del tempo libero, dell’educazione continua, del tempo disponibile, o, ancora, università popolari): realtà che malgrado un’apparente somiglianza sono qualcosa di molto diverso rispetto a quelle esperienze ottocentesche. Con le quali hanno in comune solo due aspetti: in entrambi i casi si tratta di iniziative spontanee, non calate dall’alto, e dedicate ad una utenza adulta.

Dopo la prima esperienza del genere, nata a Tolosa nel 1973, l’idea si è diffusa rapidamente, soprattutto in Europa. In Italia le prime Università della terza età sorgono sul finire degli anni ’70 (quella di Trento, una delle prime, risale al ’79) ed oggi, in 398 sedi, quasi 120.000 persone frequentano corsi regolari delle discipline più diverse, dalla filosofia all’informatica, tenuti da quasi 6.000 docenti. A organizzare tutto ciò, una galassia di enti e associazioni di varia ispirazione ideale, che lavorano autonomamente uno dall’altro, anche se collegati, per uno scambio di esperienze, da alcune associazioni di categoria. Una delle quali, la Fipec (Federazione Italiana per l’Educazione Continua) ha tenuto nei giorni scorsi un convegno a Trento, seguìto, il giorno successivo, da un’analoga iniziativa organizzata dalla Uil Pensionati, a dimostrazione della vitalità di questo mondo, ma anche della sua frammentazione.

Data la totale autonomia di azione di ogni scuola, non è facile parlare in generale delle Università della terza età, quanto meno dal punto di vista organizzativo. Ad esempio, in alcuni (pochi) casi, al termine dei corsi, che comunque non rilasciano attestati con valore legale, si svolgono degli esami volti a verificare l’impegno dei partecipanti, mentre nella stragrande maggioranza di queste scuole si ritiene che ciò sia inutile se non controproducente: a garantire una seria partecipazione esistono già due elementi più che sufficienti: la frequenza a pagamento e il fatto che comunque, a fine anno, non si rilascia alcun "pezzo di carta". Insomma, anche senza esami, c’è la garanzia che chi segue i corsi lo fa per un reale interesse.

Ad unificare tutte queste esperienze, c’è soprattutto un cambiamento di ottica che si è avuto negli ultimi anni. Queste particolari università sono nate in un contesto sociale di ormai diffuso benessere, grazie al quale molte persone anziane, non pressate da preoccupazioni economiche, potevano permettersi di ritornare sui banchi per colmare delle lacune culturali causate dall’interruzione degli studi avvenuta in gioventù, o per soddisfare nuove curiosità intellettuali sorte nel corso degli anni. A questo, poi, si aggiungeva un positivo effetto collaterale: la possibilità di una socializzazione che, soprattutto nei grandi centri urbani, può diventare difficile per chi abbia abbandonato il lavoro, e che viene invece favorita da una regolare frequentazione scolastica. Si trattava, quindi, di iniziative destinate alle persone anziane, come del resto indicato dalla loro denominazione.

Ma col passare del tempo ci si è accorti che l’età media dei partecipanti tendeva di anno in anno a diminuire: per capirci, oggi, alla scuola di Trento, l’età media dei corsisti è di 63 anni, e il 20% degli iscritti è sotto i 55. Quasi tutti pensionati, magari, perché per seguire con profitto lo studio di una o più discipline ci vuole parecchio tempo libero, ma spesso baby-pensionati.

E come conseguenza di ciò, un’altra constatazione, ricavata anche da ricerche svolte su questo tema: il bisogno di stare assieme con qualcuno, di trovare compagnia, di socializzare, è assolutamente secondario fra le motivazioni di chi si iscrive. Largamente prioritario è l’aspetto culturale. E si badi bene: qui non si tratta né di alfabetizzazione, né di formazione per l’apprendimento di un mestiere, né di aggiornamento professionale, ma di crescita individuale, di piacere del conoscere, di desiderio di star dietro ai tempi, di necessità di riempire dei vuoti di cui ci si rende conto non appena, col pensionamento, si interrompe il tran tran degli impegni lavorativi. A questi bisogni le Università della terza età vengono incontro con una proposta che la scuola "normale" non aveva mai consentito: la possibilità di formarsi dei percorsi formativi personali, senza costrizioni di sorta.

Una possibilità che attira, a quanto pare, soprattutto le donne: all’Utetd (Università della Terza Età e del Tempo Disponibile) di Trento, le donne iscritte sono l’85% del totale, un dato che non ha quasi per nulla a che fare con la minore longevità degli uomini, anche perché - come abbiamo visto - l’età media degli iscritti è relativamente bassa.

"Probabilmente - ci dice Giampiero Girardi, direttore dell’Istituto Regionale di Studi e Ricerche Sociali da cui l’Utetd dipende - le donne sono più duttili, più disponibili, non si vergognano, come molti uomini, a tornare sui banchi.

Imparare cose nuove comporta spesso una messa in discussione delle proprie certezze, e le donne, in questo, sono certamente più coraggiose".

Soprattutto là dove queste scuole non sono diffuse sul territorio (non è questo il caso del Trentino - vedi scheda), rimane però ancora, a livello di opinione corrente, lo stereotipo dell’Università della terza età come sostanziale passatempo e pura occasione per stare in compagnia: la scuola - si tende a pensare - è cosa per i giovani; a che serve che un vecchietto di 75 anni studi l’inglese o impari a dipingere? Un bambino sui banchi è cosa ovvia, un adulto, a meno che non lo faccia in vista di un obiettivo ben concreto, è una bizzarria. Quello che sfugge è che non siamo in presenza di un mero apprendimento di conoscenze senza uno sbocco pratico, ma dell’acquisizione di strumenti per entrare in rapporto con gli altri, per capire il proprio tempo, per evitare che fra una generazione e l’altra si aprano degli spazi di incomprensione.

L’importanza di questa operazione, della cosiddetta educazione continua (concetto che si va rapidamente sostituendo a quello iniziale di università per anziani) dopo vent’anni di disinteresse è stata finalmente compresa anche a livello governativo, e nel 1997 sono stati istituiti i Centri territoriali per l’educazione permanente, che però finora hanno organizzato quasi esclusivamente corsi di lingua italiana per lavoratori immigrati.

Se e quando funzioneranno a pieno regime, si porrà, evidentemente, il problema di un loro rapporto con la corposa realtà delle scuole già esistenti: un problema già ora sentito dai dirigenti delle università per adulti, che chiedono una ufficializzazione delle loro attività: ciò non significa che aspirino a poter rilasciare diplomi con tutti i crismi, ma che sentono la necessità di poter lavorare "in rete" con le normali istituzioni scolastiche e culturali in genere secondo regole precise e una puntuale distribuzione di compiti.

Stiamo parlando di realtà, in molti casi, con alle spalle un lungo patrimonio di lavoro, di esperienza e di successi; se e quando - come dicevamo - anche la scuola ufficiale comincerà ad occuparsi concretamente dell’educazione degli adulti, è bene che ciò avvenga tenendo conto di quanto già esiste, in modo che non succeda come nel campo dell’ordine pubblico, dove la presenza di più corpi (polizia, carabinieri, guardia di finanza...) non coordinati fra loro ha spesso come risultato la dispersione delle energie o addirittura il fallimento dell’ovbiettivo..

D’altra parte, l’autonomia di ogni singola scuola, la sua specificità, la sua impostazione sono un patrimonio importante, da rispettare, ma altrettanto importante è che il cittadino sia garantito in merito alla serietà delle proposte educative che gli vengono offerte, e dunque un minimo di regolamentazione di questo mondo non guasterebbe.

Evitando da una parte gli eccessi burocratico-statalisti, dall’altra certi esagerati patriottismi che già ora tengono lontane alcune di queste scuole da ogni proposta di collaborazione.