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L’ articolo 192 e il “giusto processo”

Modificata la Costituzione, si tratta di dare applicazione alla nuova norma. E qui sorgono i problemi...

Mentre scriviamo, è in corso alla Camera l’esame di un progetto di legge complesso e spesso oscuro, già approvato dal Senato, diretto a dare applicazione concreta e particolareggiata al nuovo art. 111 della Costituzione (relativo al cosiddetto giusto processo) limitatamente alla formazione e alla valutazione della prova nel processo penale.

Il testo e il dibattito hanno messo in luce difficoltà, elementi nuovi e positivi e altri invece gravi e forieri di pericoli.

La prima difficoltà riguarda il tempo. E’ quasi matematico che la Camera non riuscirà ad approvare il testo senza modifiche in modo che entri in vigore il 7 gennaio 2000 insieme con il nuovo art. 111 della Costituzione. Per evitare una voragine legislativa che, com’era prevedibile, inghiottirebbe centinaia di processi di mafia e di corruzione, il Governo sarà costretto a emanare un decreto legge, il che è una forzatura, sia pure necessaria, perché concerne il mutamento di una regola cardine del processo penale qual è quella del diritto al silenzio e dei criteri per la formazione e la valutazione della prova. Ancora una volta Parlamento e Governo procedono, in materia di giustizia, a strappi, in modo contraddittorio, mettendo il carro davanti ai buoi o, viceversa, chiudendo la porta della stalla quando i buoi sono scappati.

La seconda grave difficoltà è costituita dalla complessità e dall’oscurità del disegno di legge: è chiaro che in materia procedurale la mancanza di chiarezza e di certezza pone il giudice nella impossibilità di applicarla correttamente.

Tralasciando questioni particolari o troppo tecniche, gli elementi nuovi e positivi sono almeno due: il primo è che il coimputato del medesimo processo e la persona imputata in procedimento connesso, cioè in pratica i "pentiti", assumono finalmente l’ufficio di testimoni: se hanno parlato durante le indagini preliminari, sono obbligati a rispondere anche al dibattimento. Se tacciono, incorrono nelle pene previste per il testimone.

Ritengo, come ho sempre sostenuto, che ciò costituisca un grande passo avanti sulla via giusta: quella del contraddittorio effettivo e della efficacia probatoria del dibattimento. Viene inoltre introdotto un articolo che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chi con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro, induce il "pentito" a tacere o a rendere dichiarazioni mendaci.

La seconda novità positiva è che quando violenza, minaccia o corruzione sono provate, le dichiarazioni rese dal "pentito" al Pubblico Ministero sono valide e acquisite al fascicolo processuale.

C'è però anche un lato negativo che non va sottaciuto: il "pentito" che assume l’ufficio di testimone "non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono, anche indirettamente, la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede".

Il diritto al silenzio, per quanto riguarda le proprie responsabilità, è sacro. Lo sapevano anche gli antichi: "Nemo tenetur se detegere". Ma cosa vuol dire "anche indirettamente"? Per esempio, deve o no parlare l’imputato-testimone di una rapina cui ha partecipato, tacendo di sé (ovviamente) ma rivelando fatti, circostanze, modalità e autori "altri"? Oppure ha diritto di tacere? La difficoltà da parte del giudice di interpretare tale "rilevanza indiretta" potrebbe rendere di fatto inapplicabile la disposizione. Meglio sarebbe toglierla.

La norma che fa più discutere e che ha già sollevato forti obiezioni è quella che modifica l’attuale art. 192 c.p.p., che prevede i criteri che il giudice deve seguire nella valutazione della prova. La novità introdotta è un 5° comma che in sostanza regola le dichiarazioni incrociate e coincidenti di due o più "pentiti".

Il problema è il seguente: possono fare prova o no? Ancora prima del diritto, il buon senso vuole che possano essere prese in considerazione come elemento di prova se sono spontanee, coerenti e logiche. La proposta di legge invece stabilisce che le dichiarazioni possano essere considerate elementi di prova "soltanto se sia stato accertato che ciascuna dichiarazione deriva da diretta e autonoma conoscenza dei fatti da parte di colui che l’ha resa".

Cosa vuol dire diretta e autonoma? Il primo termine è abbastanza semplice da interpretare: chi parla deve aver partecipato al fatto, o almeno averlo visto o sentito direttamente; non può cioè raccontare cose che gli sono state riferite. Questo divieto è già contenuto nel codice, e quindi la ripetizione è inutile.

Veniamo al secondo termine: conoscenza autonoma cosa vuol dire? E’ forse un rafforzativo di diretta? O vuol dire che il "pentito" A non deve aver mai conosciuto il "pentito" B? Se per esempio A e B, pur conoscendosi, hanno assistito al medesimo delitto e rendono deposizioni convincenti, sono valide o no le loro confessioni? Oppure era preferibile la presenza del solo A o del solo B, la cui dichiarazione sarebbe stata presa in considerazione almeno come indizio?

In realtà le questioni interpretative circa il carattere autonomo della conoscenza dei fatti comportano difficoltà quasi insormontabili. Una norma così rigida e per di più oscura costituisce quasi una "prova legale" che contrasta con il principio del libero convincimento del giudice.

Mi chiedo se è necessario cambiare, proprio in questo momento, l’art. 192 c.p.p. Perplessità in questo senso sono state espresse dal Procuratore di Palermo dott. Grasso e dal sottosegretario alla giustizia Giuseppe Ayala. Una delle pochissime volte che mi vede d’accordo con il presidente delle Camere Penali avv. Giuseppe Frigo è la sua dichiarazione: "Se il contraddittorio in aula, dopo il nuovo 111, è effettivo, non c’è bisogno di toccare adesso il 192".

L’attuale presidente della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli ha detto a sua volta: "Se la norma costituzionale è dettagliata, il giudice può interpretarla da solo". Concordo, tanto più che la giurisprudenza anche della Cassazione ha ribadito più volte i criteri che devono presiedere alla valutazione delle prove, proprio in materia di deposizioni incrociate. Fra le tante sentenze ne cito una particolarmente significativa: "La chiamata di correo, se precisa e circostanziata, può costituire fonte di convincimento in ordine alla responsabilità, qualora la stessa abbia trovato riscontro in elementi esterni che siano tali da renderne verosimile il contenuto. Detto riscontro esterno può essere costituito da qualsiasi elemento di natura diretta e logica e quindi anche da altra chiamata di correo convergente, resa in piena autonomia rispetto alla precedente, tanto da escludere il sospetto di reciproche influenze"(Cass. Pen., sez. 1, 31 marzo ’98, n.1807).

Come si può constatare, la magistratura giudicante è da tempo arrivata a individuare il giusto criterio interpretativo, e non c’è quindi bisogno di nuove norme pasticciate.