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QT n. 8, 15 aprile 2000 Servizi

Immigrati a scuola: incontro o scontro di culture?

E’ possibile favorire l’integrazione dei piccoli stranieri rispettando la loro cultura d’origine?

Gli immigrati sono destinati a diventare una componente importante e crescente nella nostra comunità, si tratti di adulti venuti per lavoro, delle mogli o dei figli nati qui, portati direttamente o fatti arrivare col ricongiungimento. Le motivazioni che li hanno spinti da noi sono le più diverse: si spazia dal profugo espulso dal suo territorio senza alcuna speranza di rientro (Bosniaci e Rom del Kossovo) al rifugiato politico (Curdi); da chi fugge da situazioni di estrema povertà (Albanesi) a chi cerca di mettere assieme un gruzzolo da reinvestire una volta tornato a casa. Il rischio di omologazione culturale e di estraniazione da sé è forte per tutti ma, mentre gli adulti sono in grado di sviluppare la capacità di riconoscersi in due culture, di darsi quasi una doppia identità, per i giovani è una strada quasi obbligata: crescono in una società che non è quella della famiglia, parlano un’altra lingua, assorbono a scuola, dalla Tv, per strada, altri modi di essere, di esprimersi e di percepirsi tra gli altri che, giorno per giorno, li differenziano dai genitori.

Alcuni dei quali ne sono contenti e spingono i figli in questa direzione perché hanno già ipotizzato per loro la permanenza, altri seguono un po’ preoccupati la trasformazione (lamenta una signora senegalese: "I miei figli in casa parlano italiano tra loro") ed altri ancora rifiutano di vederli dimenticare le origini.

Molte variabili influenzano o limitano questo processo, per prime l’origine etnica, il sesso e l’età al momento dell’arrivo: per un bambino arrivato in età da asilo sarà più facile sviluppare il senso di appartenenza alla nuova comunità rispetto ad un altro giunto qui a 14-16.

Ma cosa devono fare le istituzioni per far posto ai nuovi venuti? Molto, anche perché oggi essi sono ben altro che degli ospiti cui far largo per puro spirito cristiano. Se, come detto, per gli adulti è difficile rimuovere la cultura natia, ben diversa è la situazione dei ragazzi, per i quali si apre una prospettiva concreta di integrazione passante prima di tutto per le aule scolastiche. La scuola dunque come strumento principale di integrazione per chi crede nei valori civili della solidarietà, nella promozione della pluralità delle culture e nello sviluppo di rapporti orizzontali tra culture.

Lo Stato si era mosso già con la riforma dei programmi scolastici dell’85 riconoscendo il diritto all’uguaglianza e il riconoscimento della diversità: "Il fanciullo sarà portato a rendersi conto che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". Condividendo un modello di questo genere, non è possibile concepire un servizio educativo unicamente come un contenitore di dati predefiniti; uno spazio dove si entra solo per prendere qualcosa, senza poter dare, senza lasciare traccia della propria differenza: oggi, di fronte al multiculturalismo, bisogna conciliare l’uguaglianza del diritto con il riconoscimento della differenza. Questa è la sfida per il futuro della società trentina: riuscire a integrare i nuclei familiari extracomunitari senza costrizioni o imposizioni, mettendo i padri in condizione di realizzare le migliori opportunità per i figli e questi nelle condizioni ideali di apprendere una nuova cultura senza tagliare i ponti con quella dei genitori. La scuola è il momento più importante per costruire un equilibrio tra richiamo delle origini e nuova realtà. Semmai l’interrogativo è: come inserirli senza negare le storie personali e le appartenenze di ciascuno? E l’approccio non può essere lo stesso per tutti: i Marocchini sono diversi dai Polacchi e questi dai Cinesi, a loro volta agli antipodi dei Sudamericani.

Sono tre i momenti pedagogico-didattici da promuovere: per primo l’accoglienza da cui dipendono le tappe successive, cioè l’inserimento dell’alunno e la costruzione di relazioni significative con gli altri, specie con i pari; per secondo, l’apprendimento della lingua italiana, che può avvenire sia in classe come istruzione, sia come gruppo di interazione.

L’età è un fattore determinante: così, se alle materne ai nuovi arrivati bastano 2-3 mesi per essere in grado di intendersi, per affrontare la complessità concettuali della scuola superiore sono necessari, ad un ragazzo giunto a 16 anni, 5 anni di studio dell’italiano. Si spiega così perché la percentuale di bambini immigrati alle materne (circa il 2,8%) sia addirittura superiore al peso effettivo di tutti gli immigrati (2%); perché alle medie sia leggermente sotto e alle superiori sia appena allo 0,5%.

Infine l’approccio interculturale, inteso come attenzione alle diversità ed ai vissuti personali mettendo in luce differenze, convergenze riconducendole alla relatività dei punti di vista proprie di ogni popolo.

Numerosi i buoni esempi: in alcune mense scolastiche vengono serviti, accanto a quello italiano, vari altri menù: musulmano, ebraico, cinese e vegetariano; in altre scuole i genitori stranieri sono stati incoraggiati a organizzare per i compagni di scuola dei figli incontri a tema, con canti, danze e cibi tipici dei loro Paesi, a descrivere le usanze, le credenze e le tradizioni. La rivista della scuola trentina "Didascalie" ha raccolto per tutta la provincia storie di ragazzi extracomunitari: non traspaiono particolari accenti di disagio, forse un po’ di nostalgia, ma tutti si trovano bene. Dal canto loro, i ragazzi italiani, invitati a descrivere in un compito l’arrivo di un nuovo compagno di classe, esprimono - non retoricamente, speriamo - gioia per la nuova presenza, comprensione per le sue difficoltà e disponibilità ad accettarlo come uno di loro: e così i piccoli stranieri nella nostra scuola, dopo un po’, si sentono a loro agio perché tanti problemi si risolvono con l’amicizia.

Accanto a difficoltà ambientali e culturali vi sono quelle didattiche, rappresentate dal livello pregresso di scolarità di ogni immigrato in età scolare. Molte le differenze che pongono problemi concreti: un ragazzo proveniente da un Paese a bassa istruzione in quale ordine di classe andrà inserito? Un quasi analfabeta di 11 anni andrà iscritto in una quinta elementare o dovrà partire dalla seconda? E se arriva in aprile, va immesso nella classe corrispondente o dovrà partire dal suo livello effettivo di preparazione?

Il problema dell’età è molto sentito dagli operatori scolastici. Spiega una psicopedagogista: "Cerchiamo sempre di ridurre il più possibile lo scarto tra età anagrafica e classe. Questo indipendentemente dalla conoscenza dell’italiano, perché l’introduzione di un ragazzo più grande favorirebbe atteggiamenti negativi nei suoi confronti. I bambini nomadi sono un caso a parte. Arrivano con un bagaglio di problemi che vanno risolti a monte, non hanno punti di riferimento, sono molto disorientati, necessitano di tutto un lavoro di pre-grafismo, di pre-lettura e di pre-scrittura e attorno a loro c’è sempre un clima di diffidenza".

Simonetta, un’insegnante del basso Sarca impegnata in un progetto antirazzista, racconta di aver proposto agli alunni di una quarta elementare di "attaccare" dei sostantivi a due termini base: Trentino e Zingaro. Al primo hanno aggiunto "cittadino, persona, buono, ricco"; al secondo "ladro, povero, mendicante".

Per i ragazzi di origine europea, la situazione è migliore. Afferma un’insegnante: "I bambini stranieri arrivano generalmente già scolarizzati. Magari non parlano una parola di italiano ma hanno già l’abitudine alla disciplina, all’apprendimento, allo studio e in poco tempo, con il sussidio del laboratorio linguistico, sono in grado di seguire le lezioni".

Immersi nella nuova cultura, i ragazzi di qualsiasi origine assorbono nuovi comportamenti, atteggiamenti e linguaggi che presto li costringono a confrontarsi con quelli dei genitori, a fare raffronti che li porteranno in mezzo ad un guado. Vivono questo momento con silenzi, chiusure e omissioni che - secondo molti maestri - non vanno interpretati come espressione della percezione di una differenza vissuta come sentimento di inferiorità, ma come il segnale dell’inizio di un’integrazione avviata.

Ma c’è anche un pericolo: che a fronte di un vissuto della propria differenza in termini di inferiorità, i bambini stranieri cerchino di soddisfare il legittimo bisogno di appartenenza isolandosi da coloro che percepiscono come diversi e cercando la solidarietà dei loro simili. Così facendo non solo corrono il rischio di aumentare un divario che all’esterno di un ambiente protetto come quello della scuola si amplifica, ma anche il rischio che tale comportamento possa essere frainteso. L’immigrazione è prima di tutto una rottura che interferisce nella strutturazione della personalità: in modo inconsapevole questi ragazzi si pongono un problema di identità: chi sono oggi e chi sarò tra dieci anni?

Per favorire l’inserimento di un giovane straniero in classe e nella comunità è stata introdotta una nuova figura, quello del mediatore culturale. Suo compito è facilitarne l’inserimento senza che egli risenta troppo del salto culturale o sviluppi dei rimpianti. Il mediatore agisce anche sulla famiglia aiutandola a superare difficoltà pratiche di inserimento nella scuola del figlio e, piùin generale nella comunità ed a capire la ragione di nuove abitudini e comportamenti che anche loro devono far propri. Può muoversi anche nell’altro senso, fornendoci informazioni sul nuovo venuto.

In Trentino, un caso particolare di immigrazione è quello legato alla lavorazione del porfido. La manodopera, ormai da 20 anni, è formata per lo più da immigrati da ex Yugoslavia e Magreb. Tutti con permesso di soggiorno e contratto di lavoro, hanno in buona parte le famiglie al loro seguito. Nel circolo didattico di Cembra, infatti, ben il 12% degli alunni, 73 su 607, sono figli di immigrati. Non vengono segnalati problemi particolari: i ragazzi costruiscono la loro integrazione etnica a scuola e nel gioco, si frequentano senza alcuna difficoltà e diventano amici trascinando in ciò spesso le famiglie.

Anche le risposte dei ragazzi al "Cosa farai da grande?" sono le più classiche: Arjola, albanese di 7 anni, dichiara di voler fare la maestra; Senad, macedone di 10 anni, il calciatore; Youssef, marocchino di 7 anni, il poliziotto; Jacklyn, sudafricana di 12 anni, l’attrice.

Da parte loro, gli insegnanti segnalano notevoli differenze tra le varie comunità nel percepire il significato della scuola: gli immigrati europei sono attentissimi all’istruzione e l’iscrizione dei figli alla scuola è la loro prima preoccupazione. I magrebini al contrario mostrano una certa indifferenza: quando da fine novembre a metà febbraio le cave sono chiuse per il freddo, non hanno alcuna difficoltà a partire coi figli per il Marocco.

Una maestra: "Yassim viene a scuola solo quando il padre è a casa. Altrimenti si fa vedere in bici alla ricreazione, ma quando suona la campanella saluta e se va. A casa nessuno se ne preoccupa".

Scuola e società cercano di offrire una prospettiva di integrazione ma guardando alla consistenza numerica degli immigrati in provincia, qualche dubbio sorge: è possibile parlare di sopravvivenza di tante culture quando queste, nel loro variegato insieme, sono rappresentate dal 2% della popolazione? Quando sono culture arretrate? Quando sono paesi con storie nazionali "piccole"? Quando se ne parla solo per la miseria o la violenza? Quando l’appartenenza ed il riconoscimento nella comunità d’origine sono un disvalore? E che dire del rispetto della legge e delle regole se queste contrastano con le nostre?

Un esempio per tutte: il diritto coranico di proprietà sui figli. Va rispettato o negato? Interrogativi che per ora non rappresentano un problema poiché, per quanto riguarda la nostra provincia e l’Italia, i piccoli numeri non consentono il formarsi di gruppi di immigrati in numero tale da alimentare uno spirito di comunità autosufficiente: per ora i presenti sono fatalmente destinati all’assimilazione. In via generale va tutelata la diversità e l’originalità dell’individuo quando essa è compatibile con le leggi, quando non contrasta ma arricchisce la nazione ospitante. Niente di male se qualche migliaio di nuovi arrivati si trasformeranno in trentini che preferiscono il cus cus ai canederli e se il loro piatto preferito sarà, come garantisce uno spiritoso, "polenta e camèl".

Lucia Coppola, in un recente intervento su un quotidiano locale, affermava che bisogna passare dalla multiculturalità all’interculturalità, nella prospettiva di una società inclusiva capace di combinare nazione dei cittadini e nazione etnica, valorizzando l’identità multipla ed il meticciato. Ciò non implica la necessità automatica di buttar via l’identità nazionale, il senso di appartenenza che ci lega al luogo in cui siamo nati e viviamo, la nostra lingua, la cultura e la religione ; ma tutte queste vanno ricostruite in maniera aperta ed inclusiva sia della cultura locale che delle culture/altre. Una visione moderna del divenire dell’umanità ma, tuttora, la discrepanza tra le linee guida e la realtà sul campo sono notevoli. Racconta ancora Simonetta: "Quasi sempre, quando un bambino compie gli anni, porta in classe qualcosa per festeggiare. Quando toccò alla bambina Rom, questa venne con una bottiglia di aranciata comperata al supermercato, ma nessuno dei compagni volle berne perché - dissero - era sporca".