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Diritti linguistici e garanzie di difesa

Un cittadino italiano appartenente a una minoranza linguistica ha diritto di essere processato nella sua linguamadre. Ma non sempre...

Un cittadino italiano appartenente alla minoranza slovena del Friuli-Venezia Giulia è imputato di un reato contro un magistrato della circoscrizione giudiziaria. Se il processo a suo carico si svolge a Trieste o a Udine, deve essere applicato l’art. 109 cpp che al suo 2° comma così dispone: "Davanti all’autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza, è a sua richiesta interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo verbale è redatto in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento...".

Ma il processo invece ha luogo a Venezia, in base all’art. 11 dello stesso codice in base al quale "i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona offesa o imputato" non sono più di competenza territoriale dei magistrati cui il giudice appartiene, ma per effetto di uno spostamento garantistico diventano "di competenza del giudice che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d’Appello stabilito dalla legge". Di fronte al Pretore di Venezia l’imputato chiede l’applicazione dell’art. 109 cpp (processo in lingua slovena) e altresì dell’art. 26 delle norme di attuazione (avvocato difensore che sia di madrelingua slovena, o che la conosca). Poiché secondo la dizione letterale delle norme esse si applicano solo all’interno del territorio della minoranza linguistica ma non fuori, cioè in provincia di Trieste ma non in quella di Venezia, il Pretore solleva eccezione di incostituzionalità parendogli di ravvisare la violazione dell’art. 3 della Costituzione (in provincia di Venezia il cittadino di lingua slovena era certo meno "uguale" che in provincia di Trieste) e inoltre degli artt. 6 e 24 (il diritto di difesa era palesemente reso più difficile dalla diversità di lingua, nonostante la tutela proclamata dalla Repubblica a favore delle minoranze linguistiche).

Non vi è dubbio che l’art. 109 del codice si applica solo dinanzi all’autorità giudiziaria avente competenza, di primo grado e di appello, sul territorio dove è insediata la minoranza linguistica riconosciuta. E’ proprio tale limitazione a far sorgere la convinzione di incostituzionalità della norma: se le esigenze di garanzia che sono alla base della disciplina normativa attengono a diritti soggettivi fondamentali di natura costituzionale, come quelli riconosciuti dagli artt. 3. 6 e 24 (uguaglianza e garanzie di difesa), non è ammissibile che essi possano essere sacrificati ad altri interessi fra cui lo spostamento di competenza territoriale previsto dall’art. 11 cpp (corretta amministrazione della giustizia). Al cittadino appartenente a una minoranza riconosciuta (altoatesina, slovena, ecc.) deve essere riconosciuta una tutela non inferiore (cioè uguale) a quella accordata agli altri cittadini italiani, nell’esercizio del diritto di difesa, in qualunque parte del territorio della Repubblica. Se un cittadino di madrelingua italiana viene processato a Bolzano, il processo si fa in italiano. Per quale ragione se un cittadino di madrelingua slovena viene processato a Venezia, il processo non si fa in sloveno?

Investita del problema la Corte Costituzionale ha respinto l’eccezione definendola infondata, con sentenza n° 406 del 29 ottobre 1999. Secondo la Corte la garanzia che tale norma appresta (l’art. 109 cpp) è ispirata al criterio della territorialità. Esso comporta che i diritti di uso della lingua della minoranza valgono come diritti personali, ma soltanto sul territorio di insediamento della comunità medesima. La questione sollevata dal Pretore di Venezia mirava appunto a ottenere una protezione dei diritti linguistici e di difesa, strettamente intrecciati, al di là dei limiti territoriali di insediamento, in una proiezione appunto personalistica. In effetti proprio questo è il punto: dato che il diritto stabilito dall’art. 109 cpp è un diritto della persona, è irragionevole che un diritto "personale" non segua la persona fisica dovunque si trovi, ma valga solo nella provincia di origine e non nelle altre.

Va rilevato infine che il principio stabilito dalla Corte Costituzionale è in aperta contraddizione con quanto stabilito in un caso analogo dall’art. 48 cpp. E’ noto che quando la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la libertà e la serenità dei giudici sono pregiudicate, il processo può essere trasferito da una sede all’altra su richiesta del Procuratore Generale e su decisione della Corte di Cassazione. Nel processo di fronte al nuovo giudice (per esempio il Pretore di Venezia anziché quello di Trieste) l’art. 48 stabilisce che "le parti esercitano gli stessi diritti e facoltà che sarebbero loro spettati davanti al giudice originariamente competente". Se dunque il processo a carico del cittadino di madrelingua slovena viene spostato da Trieste a Verona per legittima suspicione, l’imputato gode delle garanzie previste dall’art. 109 cpp (processo in lingua slovena). Se invece viene spostato per la qualità di giudice della parte offesa, l’imputato deve subire il processo in condizioni di minorità (lingua italiana invece che slovena), pur essendo il suo diritto di natura personale in entrambi i casi.

Perché dunque nel primo caso si fa il processo in sloveno e nel secondo caso in italiano? La sentenza della Corte Costituzionale non risponde a questa semplice domanda, cosicché rimane palese la disparità di trattamento e la violazione dei diritti di difesa.

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