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QT n. 11, 27 maggio 2000 Servizi

Fatima: ritorno all’irrazionale

Considerazioni di un laico sulla rivelazione del “terzo segreto”. I pericoli - per tutti - di una spinta irrazionalistica. E le responsabilità di quel che resta della cultura laica.

Sono rimasto profondamente colpito dall’insieme della vicenda delle premonizioni di Fatima. E ancora più colpiti i tanti amici cattolici (quelli che un tempo si sarebbero detti "del dissenso", ma non solo): allibiti, quando non depressi oppure furibondi, al punto da esprimere frasi insolite in persone in genere miti, del tipo "il tale si è rivelato un’autentica testa di cazzo", "mi viene la tentazione di essere blasfemo..." Sull’argomento esprimerò le mie opinioni di laico: con rispetto per le altrui convinzioni religiose, ma anche con schiettezza.

Partiamo dai dati di fatto, ossia le premonizioni e il loro avverarsi. A mio avviso emerge un elemento, che è doveroso rimarcare, l’inconsistenza di queste profezie.

Prima profezia: la fine della guerra allora in corso (la Grande Guerra) e il successivo scoppio di un’altra (il secondo conflitto mondiale). A fare profezie del genere siamo tutti capaci.

Seconda profezia: l’avvento di un regime ateo in Russia, che sarebbe stato sconfitto solo attraverso la conversione di quella nazione. In effetti l’avvento del comunismo non era un evento facilmente prevedibile all’epoca della formulazione orale della profezia (1917), tuttavia era esperienza storica in atto al tempo (1937) della sua trasposizione per iscritto.

La fine del comunismo come effetto di conversione è invece una mistificazione: il regime comunista implose per conto proprio, causa esterna fu semmai il raffronto con il consumismo occidentale, non certo la consacrazione al Cuore di Maria della Russia, nazione in cui il cattolicesimo è irrilevante e la Chiesa ortodossa storicamente subalterna al potere di turno. Il tentativo di presentare Wojtyla come il vincitore del comunismo è un falso storico, a disgregare l’Urss non è stata la Croce, ma la Coca Cola.

Terza profezia: l’attentato a Wojtyla. Espresso - per quel che se ne sa - in termini particolarmente confusi, il messaggio colpisce soprattutto per la sua inconsistenza storica. Di fronte ai grandi eventi di cui sopra (conflitti mondiali, comunismo) e a quelli ignorati (giustamente sono stati citati il nazismo, la Shoah, ecc.) l’attentato - fallito - a Wojtyla è un accadimento di terz’ordine, nella storia dell’umanità e in quella della Chiesa. Ben altro significato ebbero, per esempio, gli assassini nella cattedrale di Thomas Becket a Canterbury (fine del periodo buio, rozzamente militare, del Medioevo e ruolo degli ecclesiastici nella nuova preminenza del sapere) o, nel nostro secolo, quello di Romero a Salvador (ruolo della Chiesa nell’affrancamento delle popolazioni oppresse del Terzo Mondo). Invece un attentato terroristico dalle oscure motivazioni come quello di Alì Agca, non sembra avere più significato storico della gambizzazione di Indro Montanelli. Ma qui si insinua, come adombrato da Scalfari, una sorta di "interesse privato in atti d’ufficio" da parte dell’attuale pontefice: il quale, attribuendosi il ruolo di protagonista della terza oscura profezia all’uopo interpretata, enfatizzandone la portata, ha elevato il proprio "martirio", e quindi se stesso, a punto cardine del secolo, preparandosi da vivo il processo di santificazione.

Insomma, le profezie della pastorella ci riportano ai vaticini delle Sibille, e al disincanto con cui venivano accolti dai latini: "Ibis redibis non morieris in bello" (andrai tornerai non morirai in guerra, con il significato che si capovolge spostando una virgola)

E questo è il punto centrale. L’enfatizzazione di segreti, misteri, profezie, miracoli, ci riporta a una religione tutta immersa nell’irrazionale, che si rivolge alla parte più recessa dell’animo umano, alle paure profonde e alle irreali speranze salvifiche. Che parla agli istinti e prescinde dalla ragione. Un ritorno all’indietro, all’ottocentesca contrapposizione ragione/religione, che si pensava, per il bene di tutti, superata (e per un aspetto della quale, la contrapposizione alla scienza, Wojtyla ha testé solennemente chiesto pubblico perdono).

E’ noto che il processo di secolarizzazione della società ha portato, al di là del clamore degli eventi spettacolar/mediatici, a una crisi profonda della Chiesa: mancanza di vocazioni, crisi socio-esistenziale del clero, continuo calo del numero dei praticanti, in Italia intorno al 25% della popolazione.

Una risposta a questa crisi è quella etico-sociale: dei cattolici attenti alla dimensione etica della società e coerentemente impegnati: nel volontariato, nell’assistenza da noi; nell’impegno civico e politico per una società (e una comunità di nazioni) meno inique nel Terzo Mondo. Un ruolo che può anche apparire, nei paesi capitalisti, marginale ("la Chiesa non può ridursi al mero ruolo di Croce Rossa della società" - si sente dire). Ma che parte da un punto di fondamentale importanza: oggi, con la crisi delle ideologie e lo sgretolarsi dell’etica laica, è il cristianesimo l’unica entità che fornisce una dimensione etica, i famosi, mitici "valori" (magari strumentalizzati, ma questo è un altro discorso). Chi scrive - ateo incallito - deve riconoscere che oggi nella società la spinta alla dimensione etica viene soprattutto dai cattolici.

Tutto questo, però, mal si concilia con l’altra risposta: quella che punta non sull’agire nel sociale, ma nel rivalutare, fomentare l’irrazionale. Tra il prete che nelle favelas organizza l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti, e il santone che nel deserto ha le visioni sull’Apocalisse, c’è un contrasto oggettivo. (E su questo, dall’interno del mondo cattolico, si esprime nelle pagine successive don Enzo Mazzi).

Ma la spinta irrazionalistica fa torto allo stesso Wojtyla; il quale è stato un grande pontefice, ma non per le sue indubbie capacità mediatiche (che gli hanno procurato il riconoscimento, grazie al servile ottundimento dei media, di una serie di meriti inventati, come l’abbattimento del comunismo). La grandezza di Wojtyla sta, nell’era della globalizzazione, nella ricerca di un’armonizzazione tra le religioni; nello smussare i motivi di conflitto, anzi nel cercare di rimuoverne le radici; nella rinuncia all’intolleranza e anzi, nella denuncia storica dei suoi mali, con l’assunzione, attraverso la pubblica richiesta di perdono, delle responsabilità della Chiesa.

Questo, nell’era della globalizzazione, con i pericoli di nuovi e forse più deflagranti conflitti, è un merito storico.

Se da noi, i miseri personaggi che cercano di fomentare l’intolleranza etnica non riescono a trovare una sponda religiosa, se persone come il viscido Baget Bozzo, nei loro tentativi di creare un odio anti-islamico, sono solo patetici, questo è dovuto soprattutto all’attuale politica della Chiesa romana.

Ma virando la religione verso l’irrazionale, si è sicuri che non si avvii un processo pericoloso anche in questa direzione? Non è proprio la religione dei vaticini, dei sacri destini, quella che storicamente si è sposata all’intolleranza, quella che ha fornito la base culturale ai contrapposti integralismi? Wojtyla, con questo suo ritorno all’antico e all’arcano, non contraddice forse se stesso, finendo con il minare proprio l’aspetto più innovativo e fecondo del proprio pontificato?

In questo quadro spiccano le responsabilità della cultura laica, o meglio, di quel che resta di essa. Che si è genuflessa di fronte al pontefice, abbacinata dal suo successo mediatico. Le entusiastiche pagine e pagine di giornali sedicenti laici, le subitanee conversioni misticheggianti di giornalisti come Gad Lerner evidenziano una drammatica caduta di principi.

La cultura laica sembra ridotta a due valori base: successo e denaro, il resto sono orpelli. Wojtyla ha successo? Lo si applaudirà rapiti, estatici; non per convinzione, ma alcuni sperando di giocare un proprio ruolo nella sua scia, gli altri perché suonare la grancassa è ritenuto il compito dell’informazione, si tratti di Lady Diana, Lucio Battisti, o i segreti della Madonna.

Purtroppo siamo ben oltre la tradizionale trahison des clercs, il ben noto tradimento degli intellettuali. E’ uno sconcerto, una perdita di punti di riferimento, che investe buona parte della popolazione. La quale, persa la fede nella Chiesa e nel partito, svanite le costrizioni della famiglia e dei tabù sessuali, si scopre "troppo fragile per sostenere il peso della libertà", come preconizzava Dostoevskij. Ed è disposta solo ad effimere adesioni al successo mediatico del momento.

Che in questa situazione una grande agenzia culturale come la Chiesa possa scambiare l’indice di gradimento per adesione convinta, e accenni a sbandamenti verso derive irrazionalistiche, non è un bene per nessuno.