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Omicidio o atto d’amore?

Dall’episodio di Lucca uno stimolo a discutere (laicamente) di eutanasia.

La vicenda del giovane di Lucca, suicidatosi con l’aiuto di un amico, viene presentato in questi termini interrogativi, che devono metterci in guardia. Data l’unità dei contrari, gli eventi reali possono essere contraddittori, ma le definizioni devono obbedire al principio di identità. Qualcosa dunque non va nel concetto di eutanasia, nel modo in cui è definito nel codice penale, e nel modo in cui è percepito nel senso comune. Va precisato che per eutanasia deve intendersi il dare la morte a chi la richiede perché affetto da malattia inguaribile e dolorosa, per abbreviarne le sofferenze.

Sul piano penale l’uccisione per pietà o per amore è considerato delitto ed è interdetta da due norme: l’art. 579 che punisce l’omicidio coscienziente, e l’art. 580 che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Le due proibizioni sono senza dubbio corrette in linea generale. E’ dubbio invece che siano ragionevoli e fondate nel caso dell’eutanasia. La riprova sta nella domanda che l’opinione pubblica si pone a proposito del caso di Lucca: delitto o atto d’amore?

Prima di proseguire nella riflessione va ricordato che il suicidio o il tentato suicidio non costituiscono reato. Se taluno anche sano perde la voglia di vivere, o decide comunque di porre fine alla propria esistenza, tenta di uccidersi e non vi riesce ma si procura lesioni anche gravissime e permanenti, lo Stato non lo punisce. E’ come se la legge dicesse: non tutelo la tua vita oltre e contro la tua volontà. Ciò significa che ogni individuo può porre fine alla propria vita o tentare di farlo, quando vuole e senza incorrere in sanzioni penali. Perché ciò non dovrebbe valere se il soggetto, ammalato di male incurabile, chiede espressamente a un terzo di aiutarlo a morire?

In effetti da un punto di vista laico non vi sono obbiezioni valide, ed è questa la ragione per cui le due norme penali sopra ricordate appaiono superate nel caso dell’eutanasia, e una eventuale incriminazione dell’amico che fraternamente ha aiutato l’amico a morire verrebbe sentita da parte dell’opinione pubblica come una ingiustificata persecuzione.

Il solo ostacolo all’eutanasia è di natura religiosa. Secondo le religioni monoteiste l’unico titolare della vita è Dio e non la singola persona, che quindi non può disporne.

Già nel 1957 Pio XII aveva affermato che "uno dei principi fondamentali è che l’uomo non è signore e proprietario del suo corpo e della sua esistenza". Se la vita umana appartiene a Dio, la conseguenza necessaria è la proibizione dell’eutanasia: indiscutibile e insuperabile per i fedeli. Da un punto di vista laico invece il diritto alla vita è un diritto soggettivo assoluto, del tutto simile agli altri diritti della persona: diritto alla libertà di espressione, a organizzarsi in partiti, a votare e ad essere eletto, diritto al lavoro, alla salute, ecc. Si tratta di facoltà, come è noto, non di obblighi. Nessuno infatti può essere costretto a fare politica, a votare, a curarsi o a lavorare. Perché dovrebbe essere costretto a vivere contro la sua volontà? Perché il diritto alla vita dovrebbe avere una misura diversa dagli altri diritti?

Se si prescinde dalla religione, che ha validissime ragioni dalla sua, non c’è risposta convincente. E’ necessario quindi sciogliere il dilemma e stabilire se l’eutanasia (il diritto di scegliere se e quando morire, in condizioni estreme) è lecita, e come si distingue dall’omicidio del consenziente o dell’aiuto al suicidio.

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